di Carlotta Jarach
Secondo appuntamento alla Fondazione San Fedele, mercoledì 12 novembre, argomento Bereshit I, 26 – I, 31 e II, 4 – II, 25: relatori dell’evento Alexander Rofé e Donatella Scaiola presentati da Miriam Camerini, nelle vesti di moderatrice.
La prima a prender la parola è Scaiola, Professoressa Ordinaria nella Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana. Ci ricorda che l’essere umano descritto in Genesi rappresenta l’umanità intera: Uomo e Donna sono un tutt’uno, e diventano così un simbolo. La differenza permette una relazione aperta alla vita, senza scontri o violenze, e nell’incontro tra diversi che rimangono tali, senza eliminarsi a vicenda, si percepisce qualcosa di quello che Dio è. Dio è altro rispetto al Mondo, ma non per questo distante o disinteressato. Siamo qui invitati a riflettere quindi su un concetto di relazione che parte dall’alterità, condizione necessaria perché ogni incontro si realizzi e sia vissuto nella libertà.
La violenza rappresenta da sempre il rifiuto dell’alterità, e Scaiola cita vari capitoli a riprova di ciò: Genesi III, dove il rifiuto è verticale -l’uomo rifiuta Dio- e Genesi IV dove è orizzontale –Caino che uccide Abele. Il Diluvio segna poi l’apice di questo climax di violenza.
Ma in questo cammino di costruzione di sé e di rapporto con l’altro, l’uomo non è lasciato da solo. E noi con lui: “Essendo il racconto che parla delle origini, parla della vita di sempre, dell’oggi” commenta la professoressa.
Siamo immagine e somiglianza di Dio, e ciò significa che dobbiamo aspirare a Lui nel nostro agire: Egli è un non violento, che crea rivelando se stesso, con la parola, senza combattere altri dei. L’uomo deve fare sue queste caratteristiche di Dio, ci insegna Scaiola: la mitezza, l’autolimitarsi, il non voler riempire di sé tutto lo spazio, l’utilizzare la parola per mettere ordine, nel mondo interiore come in quello esteriore.
“Così l’uomo potrà seguire il compito che ha, di fare un buon governo nel Mondo senza prevaricare, ma come un pastore si prenderà cura dell’Altro’’: l’uomo deve divenire pastore degli animali e di tutto ciò che lo circonda, senza arrogarsi il diritto di sentirsi padrone assoluto, ma vivendo con responsabilità. Conclude Scaiola: “Abbiamo qui il fondamento biblico dei diritti umani, fatto valere nel suo senso più universale: non è giustificabile alcuna forma di oppressione’’.
Più incentrato sulla filologia l’intervento di Alexander Rofé, Professore di Bibbia all’Università Ebraica di Gerusalemme: il verbo barà (creare) è dominante in questo racconto della Creazione e rappresenta un unicum. Dice Rofé: ”Questo è un verbo raro, di origine non chiara: l’autore ha usato un verbo speciale per delineare l’azione divina. Nelle civiltà arcaiche, il re era visto come immagine di Dio, come effige. C’è qui come una democratizzazione: non è il re solo a essere effige, ma l’umanità intera”.
Questo racconto, dice il Professore, a differenza del successivo ci descrive la Creazione come estremamente pianificata: Dio sovrano che decide e crea il Mondo secondo un progetto ordinato. Che sia un progetto è chiaro anche per una serie di parallelismi tra i diversi giorni. Tutto programmato quindi, a differenza del secondo racconto, in cui Dio fa esperimenti: la Creazione è empirica.
Naasè adam, facciamo l’uomo: qui traspare la credenza di una coorte celeste, fa notare Rofè. “Ci sono vestigia di concetti mitologici. Notiamo però che non ci sono angeli, non si parla della loro creazione: questo autore del Pentateuco non li contempla”.
Alcuni autori ne parlano – basti pensare al sogno di Giacobbe -, mentre altri si oppongono a tale credenza: ”La Bibbia è bella perché è varia” conclude Rofé.
E si ricollega così Miriam Camerini, a chiudere: “La straordinarietà della creazione di Adam, che riesce a raccogliere in sè la diversità nel rapportarsi con l’altro, cosa che stiamo cercando di fare anche con questi incontri”.
Prossimo appuntamento mercoledì 19 novembre con David Sciunnach e Guido Bertagna.