Sono giunti a Milano dai quattro angoli del Medioriente, sbarcati all’ombra della Madonnina negli anni ‘50, ‘60, ‘70, ritrovandosi ogni giorno al Camparino in piazza Duomo o da Ricci, in Piazza della Repubblica. Alcuni si sono perfettamente integrati nel tessuto italiano, altri hanno invece preferito ricostruire la propria comunità di origine. Francofoni, anglofoni, arabofoni, di cultura francese, italiana… Sono gli ebrei sefarditi di cui il CDEC, con il Progetto Edoth, sta raccogliendo la memoria, attraverso interviste e registrazioni di storia orale.
«Una zia di mio padre che è nato a Bagdad – dice Liliana Picciotto, direttrice delle ricerche storiche al CDEC – “la tante Alice”, ancora in vita alla fine degli anni Ottanta, mi raccontava come, da ispettrice dell’Alliance Israelite Universelle, viaggiasse continuamente in carrozza a cavallo da Istanbul ad Aleppo, da Beirut a Haifa, da Bagdad ad Alessandria senza mai dover esibire nessun documento di frontiera e che, dovunque, incontrava ebrei francofoni di cultura medio alta, capaci di leggere Molière e Flaubert. Gli archivi dell’Alliance a Parigi conservano descrizioni di viaggi sotto la minaccia dei predoni, del caldo e del maltempo, che sono di per se stesse racconti fantastici. L’Alliance Israelite Universelle, associazione francese nata dalla mente di un gruppo di ebrei parigini nel 1860 per l’eguaglianza dei diritti e per l’elevazione scolastica e culturale degli ebrei del bacino del Mediterraneo, fu il grande elemento unificante degli ebrei sefarditi dell’800 e del ‘900. La lingua francese fu il collante che tenne in rete le comunità del Mediterraneo, insegnanti e professori che, formati a Parigi, passavano da un territorio all’altro dell’Impero con la massima facilità». E così, sono di lingua francese gli ebrei sefarditi che il CDEC, per il Progetto Edoth, sta intervistando. In questo quadro, fece eccezione la Libia, diventata nel 1912 colonia italiana, dove il governo tricolore contendeva a quello francese la propria penetrazione culturale. Per questo, gli ebrei libici parlano raramente il francese.
Ma quale idea sta alla base del Progetto?
«L’idea è quella di registrare le memorie degli ebrei immigrati a Milano nella seconda metà del ‘900 perché non vada perso il patrimonio di civiltà, di credenze, di abitudini che essi hanno portato con sé e che hanno arricchito sia la cultura nazionale, sia la cultura della comunità ebraica italiana». Curano il progetto Adriana Goldstaub come leader organizzativa del gruppo, Micky Sciama, fin dall’inizio anima del progetto, Regina Cohen, Jeannette Sagues, Anna Goldstein, Alessandra Jarach e Valentina Perna.
«Le persone oggetto della nostra indagine – continua Liliana Picciotto- hanno vissuto la loro infanzia o giovinezza in luoghi diversi da qui, a migliaia di chilometri di distanza. Sono nati tra il primo e il secondo conflitto mondiale oppure nel primo ventennio dopo la Seconda guerra mondiale. Hanno seguito un destino ebraico comune: ad un certo momento della loro vita hanno dovuto fare le valigie e spostarsi in un “altrove” sconosciuto, dopo secoli di presenza stanziale. Talvolta il movente del loro spostamento è stato la ricerca di orizzonti economici migliori. Con che identità hanno vissuto nei loro Paesi d’origine?, perché hanno scelto l’Italia come terra d’approdo?, come si sono trovati qui da noi?»
Quante interviste sono state fatte finora?
«Una sessantina ad ebrei provenienti dall’Egitto e una trentina ad appartenenti ad altre Edoth, l’intenzione è di proseguire il più rapidamente possibile per non perdere nessuna occasione di arricchimento».
Ci sono caratteristiche comuni che andate rilevando tra i membri delle diverse Edoth?
«Il plurilinguismo degli ebrei egiziani e la loro alta scolarità, che ha permesso loro di integrarsi ai massimi livelli nella società italiana; oppure il ripiegamento su se stessi degli ebrei della Persia settentrionale e la costante usanza dei matrimoni giovanili e interfamigliari, per autodifesa.
Le biografie che abbiamo rilevato non costituiscono un campione rappresentativo della popolazione ebraica milanese, tuttavia, rispetto alle memorie degli ebrei italiani che, in un parallelo progetto denominato Memoria della salvezza, il CDEC sta portando avanti, una prima differenza risalta subito evidente. È l’assenza per gli ebrei del Mediterraneo del trauma collettivo provocato dalla Shoah, dramma che, di fatto, ha affratellato gli ebrei d’Europa in un’unica memoria. Questo fa degli ebrei, che chiamerò “ebrei del Mediterraneo”, persone con identità diversa, fortemente segnate dal loro essere sefarditi».
Qual è il tratto saliente della memoria degli ebrei orientali?
«Ciò che li distingue è lo spostamento non per singoli, come avvenne per l’emigrazione italiana a cavallo del ‘900 verso le Americhe, ma per famiglie. Questo ha permesso lo spostamento, nella stessa valigia, sia degli averi, sia delle tradizioni. La famiglia, nel nuovo contesto dell’emigrazione, è stata la culla riparatrice dei torti inferti dalla storia. La cosa sorprendente in questo caleidoscopio, che vede protagonisti ebrei provenienti dalla Libia, dall’Egitto, dalla Siria, dal Libano e dall’Iran, è che le loro memorie, umanamente così ricche, non si dipanino solo e soltanto sotto il segno della nostalgia, come ci si aspetterebbe, ma che si aprano al presente e al futuro.Tutti, indistintamente, hanno superato, nel loro viaggio verso l’Italia, enormi difficoltà di cambio di lingua, di mentalità, di tradizioni, che si sono aggiunte alla complicazione di trovare un nuovo lavoro per mantenere la famiglia. Eppure tutti hanno dichiarato di “avercela fatta”, di non desiderare in nessun modo tornare indietro: il loro sguardo è, oggi come ieri, rivolto al futuro».