di Laura Ballio
Torà, Halachà, la voce dei Maestri… ma anche lo studio, condotto senza precondizioni né dogmi. Religiosi e laici cercano un terreno comune per essere ebrei di oggi, in diaspora e in Israele, e trasmettere ledor vador
«Laico è una parola molto usata, ma dal significato poco conosciuto. In greco, laikòs indica chi fa parte del popolo e si distingue dalla casta sacerdotale», ha spiegato Rav Roberto Della Rocca, direttore dell’Area Comunicazione e Cultura dell’Ucei, introducendo il tema della prima delle iniziative di Kesher per questa stagione. Esiste un ebraismo laico?: un quesito difficile per una discussione stimolante.
L’introduzione di Della Rocca (che ha moderato l’incontro nell’Aula Magna “A. Benatoff” della Scuola di via Sally Mayer il 18 ottobre) ha chiarito alcuni punti, non solo etimologici. «Nell’ebraismo, la figura legata alla sacralità è il cohen, tutto il resto è in una dimensione laica. Poi, dal sacerdozio al rabbinato, la figura del rabbino è diventata assolutamente laica: un intellettuale a cui non si può attribuire alcun ruolo sacrale o religioso», ha spiegato il Rav. «Laico è colui che rivendica la sua autonomia rispetto a qualsiasi dogmatismo ideologico, non solo religioso, e ritiene che la sfera religiosa non debba condizionare in alcun modo le decisioni etiche, politiche e sociali di uno Stato».
Ma dove nasce il problema? «Mentre l’ebraismo cosiddetto ortodosso vede nell’osservanza delle mitzvot e nella Torà il veicolo per una trasmissione dell’identità ebraica, gli ebrei che si definiscono laici devono trovare un’altra risposta – ha continuato Rav Della Rocca. – Le risposte sono molte ma, ancora, incompiute. Israele, per esempio, per garantire una continuità ebraica, ha trovato alcuni denominatori comuni come la lingua, l’esercito, l’idea dello Stato. Questo ha creato un forte dibattito e anche parecchie tensioni, perché gli israeliani che si dichiarano ebrei solo da un punto di vista nazionale possono essere accusati dagli ortodossi di edificare un nuovo popolo: secondo molti grandi opinionisti in Israele esisterebbero due popoli, uno israeliano e uno ebraico».
In diaspora, invece? Della Rocca aggiunge domanda a domanda: «Oggi, in diaspora, se non sono le mitzvot, se non c’è il denominatore comune dell’halachà che ci unisce nel comportamento e nelle scelte, cosa può darci una continuità? Ovviamente la domanda è provocatoria, e le risposte sono tante». La prima è arrivata dall’intervento dell’assessore alla Cultura della Comunità di Milano, Davide Romano, presentato dal moderatore come «un ebreo non religioso, che nel suo laicismo ritiene che questa Comunità debba perseguire scelte aderenti alla halachà e garantire appoggio allo Stato d’Israele». «Alla domanda se esiste un ebraismo laico, da ebreo risponderò con un’altra domanda – ha esordito Romano. – Esiste un ebraismo religioso? Pensiamo alle figure dell’ebraismo più note anche all’esterno, da Freud a Einstein, da Marx al Nobel Milton Friedman; ma anche Barbra Streisand, Bob Dylan, Amy Winehouse e pure i padri fondatori di Israele, Ben Gurion, e Peres, Dayan, Rabin e Golda Meir: tutti laici, ma tutti con ascendenze culturali e religiose comuni. Alle loro spalle ci sono i nostri grandi Maestri, da Maimonide in poi, che per secoli hanno custodito la cultura ebraica, scrivendo, elaborando e studiando; e la Torà, strumento indispensabile per pensare con la propria testa. In questo contesto non è difficile che nascano scienziati, premi Nobel e statisti. Quindi sì, esiste un ebraismo laico – ha concluso l’Assessore -. Ma non esisterebbe se non avesse il contributo di una fede come quella ebraica».
Si sono poi alternati interventi dal fronte religioso e da quello laico. Miriam Della Torre, cresciuta in una famiglia mista sefardita-askenazita, educata nell’ebraismo tradizionalista italiano e passata anche per l’esperienza dell’Hashomer Hatzair, è poi approdata all’ebraismo ortodosso osservante, «anche grazie a mio marito – ha raccontato. – Insieme abbiamo costruito una casa e una famiglia kasher legata alle mitzvot, e ne sono molto felice. Ma l’ebraismo laico in Italia esiste, anche se con caratteristiche diverse da altri Paesi europei. Dalle mie differenti esperienze ho imparato che molti di noi vivono un ebraismo fluido, che ognuno ha dentro di sé cose diverse che portano a percorsi diversi. L’importante è chiedersi: “cosa significa questo ebraismo per me?” e trasformare la risposta in azione. È la religione del fare, quindi porsi continuamente domande e cercare le risposte è quanto può dare la continuità alle generazioni future».
Geoffrey Davis, direttore generale della Digital Bros Game Academy, di origini lituane ma nato a Kansas City dove il papà rabbino fondò la prima comunità Reform americana, nel 1991 è arrivato in Italia ed è approdato all’ortodossia: «Grazie a una spinta esterna ho cominciato ad approfondire cosa vuol dire essere ebreo – ha raccontato. – Ho iniziato a osservare le regole, ho capito che alcune delle cose che avevo imparato attraverso il riformismo erano sbagliate, una distorsione della verità: sono diventato un ebreo ortodosso. Pensando alla storia che avevo alle spalle, mi sono chiesto se l’ebraismo può sopravvivere all’ebraismo laico: io credo che più lontano andiamo dal cuore delle cose, più gli elementi si indeboliscano. Per me è davvero difficile immaginare un’identità ebraica che cresca e si trasmetta senza la religione».
Secondo Stefano Levi Della Torre, accademico e saggista (tra l’altro Laicità, grazie a Dio, Einaudi, 2012), il porre domande è il terreno della laicità, anche se luogo comune vuole che siano gli ebrei per definizione a porre questioni: «Quindi vorrei proprio partire dalla storia delle domande per dire quel che secondo me c’è di originariamente laico nell’ebraismo – ha detto il professore, richiamando l’attenzione del pubblico sul Libro di Giobbe. – Giobbe è un eroe della domanda, ma il Libro di Giobbe è anche il libro della protesta di Dio contro la religione. Gli amici di Giobbe sono lo stereotipo dei religiosi, e gli dicono: “Dio è giusto, quindi se stai male vuol dire che hai fatto qualcosa”. Ma Dio a un certo punto si arrabbia: “Voi pensate di sapere come sono fatto, invece io sono mistero”. Lo dice a Giobbe ma ce l’ha con i suoi amici che si comportano come la religione, che ha la pretesa di dare risposte a cose che non si sanno: Dio, in questo frangente, propugna la laicità».
Quella laicità nella quale molti, dopo alcune generazioni passate lontano dalla pratica religiosa, faticano a capire cosa ancora li faccia sentire ebrei. «Una mitzvà che vale per gli ebrei laici come per i religiosi è lo studio, un contributo all’ebraismo e al dibattito culturale generale molto importante in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo – ha continuato Levi della Torre. – Si dice nel Pirké Avot che le controversie in nome del cielo non finiscono mai, ma le controversie che non sono in nome del cielo finiscono. La domanda è un vento che ti spinge sempre oltre. Questa è, secondo me, la via spirituale alla laicità».
Ugo Volli, semiologo, si è chiesto se sia possibile un ebraismo laico «che non ha rapporto con HaShem né con le mitzvot» e se sia compatibile con la sopravvivenza del popolo ebraico. «Sì in Israele e probabilmente no in Italia e negli Stati Uniti – è stata la sua risposta. – C’è un grande problema di trasmissione. L’ebraismo è molto forte, ma quando si succedono generazioni laiche avviene una sorta di indebolimento. Il nostro popolo ha una storia, una cultura e un’identità esclusivamente legate alla dimensione religiosa: non si può amare la nostra cultura se non si ama, sia pure con difficoltà, la tradizione che comprende la Torà, il Talmud, i Salmi. Come dobbiamo amare la nostra differenza. Il nostro futuro è nel rapporto con Israele, a prescindere dal modo in cui si aderisce alle mitzvot o si fa teshuvà. Il nostro futuro è lì e la condizione per uscire dal laicismo suicida è lasciare spazio alle diverse posizioni, continuando a dire “noi”».
Conclusi gli interventi dei relatori è seguito un fitto dibattito non senza toni polemici. Si è parlato di ebraismo riformato, del ruolo delle congregazioni e delle jeshivà laiche, di quale ebraismo per Israele e ancora moltissimo di etica, studio e continuità dell’identità ebraica. Infine, Rav Della Rocca ha ribadito che nell’ebraismo lo studio è importante in quanto porta all’azione e che tra etica e osservanza delle mitzvot non esiste contraddizione. Perché, nell’ebraismo, etica e mitzvot sono un tutt’uno.