Essere musicisti ebrei nel mondo occidentale: un viaggio nella Storia

Ebraismo

di Anna Lesnevskaya

musicisti
Il musicologo Enrico Fubini

Essere ebrei ma anche musicisti nel mondo Occidentale, un binomio vissuto in modo differente dai protagonisti della storia musicale ebraica. Partendo dalla ricerca di un confronto creativo con la cultura occidentale del Rinascimento per poi passare ad un tentativo di assimilazione nell’Ottocento e arrivando infine alla presa di coscienza della propria identità ebraica nei compositori del Novecento. A spiegare questa evoluzione in modo illuminante e coinvolgente è il professor Enrico Fubini, che ha anticipato, durante un incontro al Museo Ebraico di Bologna, alcuni contenuti del suo nuovo libro di prossima pubblicazione per i tipi della Giuntina. Fubini, noto musicologo, ha già dedicato alla musica e all’ebraismo due importanti opere, La musica nella tradizione ebraica (Einaudi, 1994) e il volume Musica e canto nella mistica ebraica (Giuntina, 2012).

Il punto di partenza per tracciare l’evolversi dell’identità dei musicisti ebraici in Europa è il Cinquecento, ha spiegato lo studioso. Nei secoli precedenti la musica ebraica si trasmetteva per via orale e, come avviene ancora oggi per la musica sinagogale, non aveva autore. Tutto cambiò col Rinascimento, quando gli umanisti iniziarono ad interessarsi alle lingue antiche, compreso l’ebraico, e al misticismo del Cabala, ma allo stesso tempo tanti ebrei, che venivano tollerati, diventarono figure importanti nel panorama culturale dell’epoca. Tra di loro, Salomone Rossi, compositore e musicista attivo a Mantova alla corte dei Gonzaga tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.

In sintonia con la tendenza dell’epoca, Rossi scriveva musica polifonica, ma nel contempo aveva un forte senso della propria identità ebraica. Così, in uno sforzo di rimodernamento della musica ebraica, ha spiegato Fubini, decise di introdurre la polifonia nei canti ebraici, rigorosamente monodici. Novità incoraggiata dal noto e discusso rabbino veneziano dell’epoca, Leone da Modena, ma accolta negativamente dal mondo ebraico nel suo insieme. Com’è noto, nella tradizione ebraica il nome di Dio non va ripetuto, se non per motivi logici. La polifonia invece portava i cantori a pronunciarlo tante volte per motivi puramente estetici. C’era poi anche un motivo più pratico per cui il metodo polifonico non prese piede nell’ebraismo: esso richiedeva dei cantori molto esperti, che mancavano nelle sinagoghe, dove la musica non era percepita come qualcosa di indipendente, ma come un accompagnamento dei testi sacri.

Al Rinascimento seguì un’eclissi dei musicisti ebrei durata per alcuni secoli. Il professore riprende dunque la sua analisi dall’Ottocento, che ha visto un’emancipazione degli ebrei in Europa, grazie all’illuminismo e alla rivoluzione francese. Agli albori di questa stagione si trova il grande filosofo Moses Mendelssohn, padre della haskalah, illuminismo ebraico, e amico dello scrittore tedesco Gotthold Ephraim Lessing. Secondo Mendelssohn, lui stesso ebreo tedesco, era importante mantenere il proprio ebraismo, ma bisognava anche aprirsi alla cultura circostante.

Auspicio tradito da suo figlio Abraham, padre del celebre compositore Felix Mendelssohn. Per  suo figlio Felix, Abraham augurava una carriera senza impicci, per cui la famiglia si convertì al protestantesimo e prese il cognome Bartholdy. Ma nonostante le rimostranze del padre, il giovane compositore non si oppose quando su alcuni manifesti fu indicato come Mendelssohn. Ciò, spiega il musicologo, testimonia una lotta interna in Felix Mendelssohn, tra le radici ebraiche e la nuova identità impostagli dal padre. Comunque sia, la stragrande maggioranza dei musicisti ebrei dell’Ottocento si sono convertiti per convenienza.

L’assimilazione però presto si rivelò un fallimento di fronte al crescente antisemitismo. Infatti nel 1850 vide la luce un opuscolo intitolato Il giudaismo nella musica uscito sotto pseudonimo e ripubblicato nel 1869 con la firma dell’autore, il compositore tedesco Richard Wagner. Il libro teorizzava che gli ebrei, pur convertiti, rappresentavano un elementi eterogeneo nella cultura germanica e quindi ci voleva una “soluzione finale” del problema ebraico. L’autore si scagliava soprattutto contro i compositori come Felix Mendelssohn e Giacomo Meyerbeer. L’ultimo aveva aiutato Wagner all’inizio della sua carriera, ma fu ripagato in questo modo. Il rapporto tra gli ebrei e il compositore tedesco si può classificare come odio-attrazione, sostiene Fubini. Così Wagner insistette che la sua ultima opera, Parsifal, carica di simbologia cristiana, fosse diretta dal conduttore ebreo Hermann Levi, nonostante questi si rifiutò di convertirsi.

Alla fine dell’Ottocento nacque il sionismo e cambiò anche il modo dei musicisti ebrei di rapportarsi con le proprie radici. Per spiegare la transizione dall’assimilazione alla presa di coscienza della propria identità, Fubini si rivolge alla figura di Gustav Mahler. Nel 1897 il grande compositore ricevette l’incarico di direttore della Staatsoper di Vienna e dovette convertirsi al cattolicesimo per poter accettarlo. Scelta fatta solo per motivi di convenienza, tanto che lo stile ebraico rimase presente nella musica di Mahler e verso la fine della sua vita si trasferì negli Usa per allontanarsi dal clima antisemita dell’Impero asburgico.

Nel Novecento il musicista che ha fatto dell’ebraismo il pilastro principale della propria opera fu Arnold Schönberg, spiega il professore. Il compositore austriaco ideò infatti la dodecafonia, metodo di composizione che si oppose alla tonalità, e che aveva radici profonde nella tradizione ebraica. Un episodio importante nella presa di coscienza della propria identità ebraica avvenne per Schönberg nel 1921, quando a Mattsee, luogo di villeggiatura vicino a Salisburgo, gli fu chiesto di documentare la non appartenenza alla comunità ebraica. Allora il compositore, convertitosi al cattolicesimo, strappò il proprio certificato di battesimo.

Mentre nell’Ottocento, conclude Fubini, la musica dei compositori ebrei non aveva niente di particolarmente ebraico, nel Novecento invece tanti compositori, tra cui Ernest Bloch, Leonard Bernstein, Darius Milhaud e, in Italia, Mario Castelnuovo Tedesco, indagarono attraverso la propria opera la loro identità ebraica.