di Rav Jonathan Sacks (a cura di Lidia Calò)
Ognuno di noi può crescere e migliorarsi: basta che lo voglia intensamente. Uno degli ultimi messaggi per Yom Kippur
di rav Jonathan Sacks z”l
Ricordo vividamente la sorpresa e la gioia che provai quando lessi per la prima volta Emma di Jane Austen. Era la prima volta che leggevo un romanzo in cui si vede un personaggio cambiare nel tempo. Emma è una giovane donna intelligente che crede di capire le altre persone meglio di loro. Così si mette a sistemare le loro vite – è una shadchan (sensale di matrimoni, ndr) inglese – con conseguenze disastrose, perché non solo non capisce gli altri; non capisce nemmeno se stessa. Alla fine del romanzo, però, è una persona diversa: più anziana, più saggia e più umile. Ovviamente, poiché questa è una storia di Jane Austen, finisce con un “e vissero per sempre felici e contenti”.
Negli oltre quarant’anni trascorsi da quando ho letto il libro, una domanda mi ha affascinato. Dove ha preso la civiltà occidentale l’idea che le persone possono cambiare? Non è un’idea ovvia. Molte grandi culture non hanno riflettuto in questi termini. I Greci, ad esempio, credevano che siamo ciò che siamo e che non possiamo cambiare. Credevano che il nostro carattere fosse il nostro destino, il carattere come qualcosa di immutabile, con cui nasciamo, che rende necessario un grande coraggio per realizzare il nostro potenziale. Eroi si nasce, non si diventa. Platone credeva che alcuni esseri umani fossero d’oro, altri d’argento e altri di bronzo. Aristotele credeva che alcuni fossero nati per governare e altri per essere governati. Prima della nascita di Edipo, il suo destino e quello di suo padre, Laio, furono predetti dall’Oracolo di Delfi, e niente avrebbero potuto fare per evitarlo.
Questo è esattamente l’opposto della frase chiave che diciamo nelle feste di Rosh Hashanah e Yom Kippur, cioè Teshuvà, Tefillà e Tzedakà evitano il decreto malvagio. Così è accaduto agli abitanti di Ninive nella storia che leggiamo a Mincha a Yom Kippur. C’era un decreto divino già scritto: “Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta”. Ma il popolo di Ninive si pente e la decisione divina viene annullata. Non c’è un destino definitivo, nessuna diagnosi senza una seconda opinione: metà delle barzellette ebraiche si basano su questa idea.
Più studiavo e facevo ricerca, più mi rendevo conto che l’ebraismo era il primo sistema di pensiero al mondo a sviluppare un chiaro senso del libero arbitrio umano. Come disse argutamente Isaac Bashevis Singer, “Dobbiamo essere liberi; non abbiamo scelta”.
Questa è l’idea alla base della teshuvà. Non solo ammettere il male fatto, non solo confessione, non solo dire Al chet shechatanu (per il peccato che abbiamo commesso, ndr). Non è solo rimorso o pentimento: Ashamnu (siamo stati colpevoli, ndr). È la determinazione a cambiare, la decisione che imparerò dai miei errori, che agirò diversamente in futuro, purché abbia deciso di diventare migliore, di modificarmi, di essere un diverso tipo di persona. Per parafrasare rav Soloveitchik, essere un ebreo significa essere creativi, e la nostra più grande creazione è noi stessi. Di conseguenza, più di 3000 anni prima di Jane Austen, vediamo nella Torah e nel Tanakh un processo in cui le persone cambiano.
Per fare un esempio ovvio: Mosè, Moshe Rabbenu. Lo vediamo all’inizio della sua missione come un uomo che balbetta, che non può parlare facilmente o fluentemente. “Non sono un uomo di parole.” “Sono lento nel parlare e nella lingua.” Ma alla fine è il più eloquente e visionario di tutti i profeti. Mosè è cambiato, è un altro.
Uno dei contrasti più affascinanti è tra due personaggi biblici che spesso si crede si somiglino, anzi a volte vengono identificai come la stessa persona in due incarnazioni: Pinchas ed Elia. Entrambi erano fanatici, estremisti.
Ma Pinchas accetta di cambiare. Dio gli affida un patto di pace ed egli diventa un uomo di pace.
Lo vediamo in età avanzata (in Giosuè 22) condurre un negoziato di pace tra il resto degli Israeliti e le tribù di Ruben e Gad che si erano stabilite dall’altra parte del Giordano: una missione compiuta con successo.
Anche Elia non è meno fanatico di Pinchas. Eppure c’è una scena significativa che accade qualche tempo dopo il suo grande confronto con i profeti di Baal sul Monte Carmelo. Elia si trovava sul monte Horeb. Dio gli chiede: “Che cosa ci fai qui, Elia?”. Elia risponde: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”.
Dio quindi manda un turbine, scuotendo la montagna e frantumando le rocce, ma Dio non è nel vento. Poi Dio manda un terremoto, ma Dio non è nel terremoto. Allora Dio manda il fuoco, ma Dio non è nel fuoco. Poi Dio parla in un kol demamah dakah, una voce di sottile silenzio, una voce dolce e sommessa. Ripete di nuovo a Elia la stessa domanda: “Che cosa ci fai qui, Elia?” ed Elia risponde esattamente con le stesse parole che aveva detto prima: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”. A quel punto Dio dice a Elia di nominare Eliseo come suo successore (1 Re 19).
Elia non era cambiato. Non aveva capito che Dio voleva che esercitasse un diverso tipo di leadership, difendendo Israele e non criticandola (Rashi). L’Onnipotente stava chiedendo a Elia di operare una trasformazione simile a quella che fece Pinchas quando divenne un uomo di pace, ma Elia, a differenza di Pinchas, non cambiò. Anche le sue parole non cambiarono, nonostante la visione epocale. Era diventato troppo santo e disincarnato per questo mondo, quindi Dio lo innalzò nei cieli su un carro di fuoco.
È stato l’ebraismo, attraverso il concetto di Teshuvà, a portare nel mondo l’idea che possiamo cambiare. Non siamo predestinati a continuare ad essere ciò che siamo. Ancora oggi, questa rimane un’idea radicale. Molti biologi e neuroscienziati credono che il nostro carattere e le nostre azioni siano interamente determinati dai nostri geni, dal nostro DNA. La scelta, il cambiamento di carattere e il libero arbitrio sono – dicono – illusioni. Si sbagliano. Una delle grandi scoperte degli ultimi anni è la dimostrazione scientifica della plasticità del cervello.
L’esempio più drammatico di ciò è il caso di una donna, Jill Bolte Taylor. Nel 1996, all’età di 37 anni, subì un grave ictus che distrusse completamente il funzionamento dell’emisfero sinistro del suo cervello. Non poteva camminare, parlare, leggere, scrivere o persino ricordare i dettagli della sua vita. Era una neuroscienziata di Harvard. Di conseguenza, è stata in grado di comprendere esattamente ciò che le era accaduto.
Per otto anni lavorò ogni giorno, insieme a sua madre, per esercitare il suo cervello. Alla fine aveva recuperato tutte le sue facoltà, usando l’emisfero destro, per sviluppare le abilità normalmente esercitate dal cervello sinistro. Potete leggere la storia nel suo libro, My Stroke of Insight, o vederla parlare in una conferenza TED sull’argomento. Taylor è solo l’esempio più drammatico di ciò che diventa ogni anno più chiaro per le neuroscienze: che con uno sforzo di volontà possiamo cambiare non solo il nostro comportamento, non solo le nostre emozioni, e nemmeno solo il nostro carattere, ma la stessa struttura e architettura del nostro cervello. Raramente c’è stata una conferma scientifica più drammatica della grande intuizione ebraica, che possiamo cambiare. Questa è la sfida della Teshuvà.
Ci sono due tipi di problemi nella vita: tecnici e adattivi. Quando affronti il primo, vai da un esperto per la soluzione. Ti senti male, vai dal dottore, lui diagnostica la malattia e ti prescrive una pillola. Questo è un problema tecnico. Il secondo tipo è quando noi stessi siamo il problema. Andiamo dal dottore, lui ascolta attentamente, fa vari esami e poi dice: “Posso prescriverti una pillola, ma a lungo termine non servirà a nulla. Sei sovrappeso, poco allenato e sovraccaricato. Se non cambi il tuo stile di vita, tutte le pillole del mondo non ti aiuteranno”. Questo è un problema adattivo. I problemi di adattamento richiedono Teshuvà, e la Teshuvà stessa si basa sulla proposizione che possiamo cambiare. Troppo spesso ci diciamo che è impossibile che non possiamo modificarci. Siamo troppo vecchi, troppo radicati nei nostri modi e abitudini. È troppo disturbo. Ma così ci priviamo del più grande dono: la capacità di cambiare. Questa è stata una delle più grandi intuizioni dell’ebraismo, un regalo alla civiltà occidentale.
È anche la chiamata di Dio, per noi, nello Yom Kippur. Questo è il momento in cui ci chiediamo: dove abbiamo sbagliato? Dove abbiamo fallito? Quando ci diamo la risposta, è allora che abbiamo bisogno del coraggio di cambiare. Se crediamo di non poterlo fare, non lo faremo. Se crediamo di poterlo fare, lo faremo.
La grande domanda che Yom Kippur ci pone è: cresceremo nel nostro ebraismo, nella nostra maturità emotiva, nella nostra conoscenza, nella nostra sensibilità o rimarremo quello che eravamo? Non credete mai di non poter essere diversi, più grandi, più fiduciosi, più generosi, più comprensivi e indulgenti di quanto eravamo.
Possa così quest’anno essere l’inizio di una nuova vita per ognuno di noi, avendo il coraggio di crescere.
(a cura di Lidia Calò)
Copyright ©️ 2013 The Rabbi Sacks Legacy Trust, All rights reserved.
Dieci piccole-grandi idee per Rosh HaShanà e Yom Kippur
Mentre ci avviciniamo a Rosh Hashana, Yom Kippur e all’inizio dell’anno ebraico, ecco dieci brevi idee che potrebbero aiutarci a focalizzare il nostro pensiero e assicurarvi un’esperienza significativa e trasformativa.
1 La vita è breve
Per quanto l’aspettativa di vita sia aumentata, non saremo in grado, in una sola vita, di ottenere tutto ciò che vorremmo ottenere. Questa vita è tutto ciò che abbiamo. Quindi la domanda è: come possiamo usarla bene?
2 Ogni nostro respiro è dono di Dio
La vita non è qualcosa che possiamo dare per scontata. Se lo facciamo, non riusciremo a celebrarla. Sì, crediamo nella vita dopo la morte, ma è nella vita prima della morte che troviamo veramente la grandezza umana.
3 Siamo liberi
L’ebraismo è la religione dell’essere umano libero che risponde liberamente al Dio della libertà. Non viviamo stretti nella morsa del peccato. Il fatto stesso che possiamo fare teshuva, che possiamo agire in modo diverso domani rispetto a ieri, ci dice che siamo liberi.
4 La vita ha un significato
Non siamo semplici incidenti della materia, generati da un universo che è nato senza motivo e che un giorno, senza motivo, cesserà di esistere. Siamo qui perché c’è qualcosa che dobbiamo fare; essere partner di Dio nell’opera della creazione, avvicinando il mondo che è al mondo come dovrebbe essere.
5 La vita non è facile
L’ebraismo non vede il mondo attraverso lenti rosate. Il mondo in cui viviamo non è il mondo come dovrebbe essere. Ecco perché, nonostante ogni tentazione, l’ebraismo non ha mai potuto dire che l’era messianica è arrivata, anche se l’attendiamo quotidianamente.
6 La vita può essere dura, ma può ancora essere dolce
Gli ebrei non hanno mai avuto bisogno della ricchezza per essere ricchi, o del potere per essere forti. Essere ebreo è vivere per le cose semplici: l’amore, la famiglia, la comunità. La vita è dolce quando viene toccata dal Divino.
7 La nostra vita è la più grande opera d’arte che potremo mai realizzare
Nei Yamim Noraim, nei “giorni terribili”, facciamo un passo indietro dalla nostra vita come un artista che si allontana dalla sua tela, vedendo cosa deve cambiare affinché il dipinto sia completo.
8 Siamo ciò che siamo grazie a coloro che ci hanno preceduto
Ognuno di noi è una lettera nel libro della vita di Dio. Non iniziamo con niente. Abbiamo ereditato la ricchezza, non materiale ma spirituale. Siamo eredi della grandezza dei nostri antenati.
9 Siamo eredi anche di un altro tipo di grandezza: quello della Torah e dello stile di vita ebraico
L’ebraismo ci chiede grandi cose e così facendo ci rende grandi. Camminiamo alti quanto gli ideali per i quali viviamo, e anche se possiamo fallire ripetutamente, gli Yamim Noraim – i giorni terribili – ci permettono di ricominciare da capo e di guardare ai nostri errori.
10 Il suono della preghiera sincera, insieme al suono penetrante dello shofar, ci dice che tutta la vita è un semplice respiro, ma il respiro non è altro che lo spirito di Dio dentro di noi. Siamo polvere della terra, ma dentro di noi c’è il respiro di Dio.
Ecco, se riuscissimo a ricordare soltanto qualcuno di queste idee, o anche solo una, potremmo forse vivere un’esperienza forte e significativa a Rosh Hashana e Yom Kippur.