Le parole del Rav, la Comunità che tutti vogliamo

Ebraismo

 

In un mondo dove quasi tutti pretendono di improvvisarsi qualcosa che non sono (e che non possono essere), incontrare qualcuno che esprime opinioni fondate è un’’emozione sempre più rara. In un pianeta, come quello dove abitiamo, dove i tromboni hanno sempre fiato da sprecare, non facciamo mai abbastanza sforzi per ascoltare chi parla a bassa voce. Si potrà o meno concordare di caso in caso con quanto dice, ma il rav Alfonso Arbib, il rabbino capo di Milano, appartiene certamente a quella rara categoria di persone che non ci assordano di parole pronunciate a sproposito. Non alza la voce, non sgomita per apparire, non si sente in dovere di dare pareri irrevocabili su tutto e tutti. Parla poco, agli occhi di qualcuno corre il rischio di sembrare quasi timido. Eppure in due recenti occasioni ha messo giù concetti solidi come le pietre angolari necessarie a sostenere le grandi costruzioni.

E proprio per queste ragioni i suoi interventi devono essere considerati con la massima attenzione.

Nella prima occasione, si trattava del grande dibattito sulla condizione giovanile ebraica. Con tante serate sprecate a buttare il fiato, chi da una parte chi dall’altra, coloro che se lo sono perso hanno mancato un’occasione molto importante. Un’occasione di ascoltare, più che di parlare. Anche il Rav, lo aveva detto chiaramente, era venuto per ascoltare. E se ha parlato, lo ha fatto solo alla fine e unicamente su sollecitazione del moderatore.
Con le sue poche parole non ha dispensato certezze, ha piuttosto sollevato degli interrogativi. I giovani, ha detto, fanno bene a discutere dei problemi e fanno bene a sollecitare il confronto. Nella nostra realtà ebraica, ha aggiunto, sarà necessario affrontare problemi estremamente delicati (vedi, tanto per citarne uno, il caso delle conseguenze che il più delle volte i matrimoni misti comportano), che sono difficili, che lo stesso rabbino capo, in quanto guida spirituale della comunità, ha il timore di affrontare. E che non potranno essere ignorati a lungo. Ma i giovani, ha affermato il Rav, non hanno questo dovere della prudenza estrema. I giovani possono e devono liberarsi dagli impacci e dai timori, non hanno l’obbligo di salvaguardare gli equilibri. E con il loro coraggio, con la loro apertura sulle questioni più controverse, possono fare da stimolo a tutta la comunità.

Poche sere dopo il Rav ha chiamato a raccolta gli ebrei di Milano per parlare di scuola e di identità della scuola ebraica. La sala era gremita. Lo era perché le problematiche della scuola sono le problematiche della comunità e vanno a toccare la parte più viva del nostro modo di concepire l’identità ebraica. E il fuoco di fila di domande che ha seguito il suo intervento ha regalato ai presenti quella che mi permetterei di considerare un’emozione forte. L’emozione di sentire che la comunità è viva, che la differenza di opinioni, talvolta anche profonda, può essere dolorosa, ma non ha mandato in frantumi un modello di convivenza che affonda nei millenni le proprie.

Il Rav ha fornito una spiegazione chiara di cosa è e di cosa può essere la scuola della comunità milanese. Un modello che aderisce, e cerca di farlo con sempre maggior serietà, all’idea di fornire alle giovani generazioni un’educazione generale d’eccellenza e contemporaneamente una preparazione ebraica solida. Un modello che conosce infinite variazioni attraverso il mondo ebraico, ma che in definitiva sembra l’unico praticabile nella nostra società.
Si è trattato di un’introduzione lucida e pacata, dove la retorica e il trionfalismo sui risultati non avevano diritto di cittadinanza e dove il riconoscimento scrupoloso degli errori commessi rischiava quasi di far perdere di vista gli straordinari risultati raggiunti. Ma si è anche trattato di una messa a punto e di una rivendicazione ferma del carattere ebraico di questo modello di scuola: l’unico collante possibile per tenere assieme una situazione che altrimenti rischierebbe la frantumazione.

Su questo il Rav, richiamando la lezione di un grande rabbino, di un gigante dell’ebraismo contemporaneo, il rav Shlomo Wolbe, è stato molto chiaro: sull’educazione dei nostri giovani non possiamo permetterci di fare sconti, non possiamo permetterci di recepire passivamente le istanze della cultura dominante e delle mode che sono nell’aria.

A questo intervento, in una sala molto affollata e densa del desiderio di partecipare come raramente accade di vedere, ha fatto seguito un fuoco di fila di domande. La comunità ha mostrato così nuovamente facce diverse e sensibilità talvolta anche contrapposte. Il suo elemento di debolezza, a prima vista, ma anche, a ben guardare, il suo elemento di forza: quello di essere la casa di noi tutti, di poter integrare tutte le nostre sensibilità.

Sono così emersi problemi importanti. Solo per citare pochi esempi: l’abbandono di un numero consistente di giovani giunti alle soglie del liceo, o lo stile di insegnamento di alcuni docenti, che tradisce i loro orientamenti personali soprattutto in fatto di vita ebraica. Il Rav è nuovamente intervenuto anteponendo alla fermezza sui princìpi fondatori di questo modello di scuola uno sforzo di comprensione e la chiara intenzione di correggere il tiro là dove sono stati commessi degli errori.

Ma quello che più conta è qualcosa d’altro. Si è nuovamente ripetuto il miracolo che questa piccolissima minoranza in Italia da due millenni continua a realizzare: si è rinnovata la capacità di parlare, di confrontarsi e si è riconfermata la volontà di cercare assieme le soluzioni.

E’ stato un enorme sforzo per mettere a fuoco dove sta quel territorio in cui tutti possono incontrarsi. E questa grande messa a fuoco collettiva mi sembra abbia dimostrato che tutti noi, a prescindere dalle libere e legittime opinioni di ognuno, ci riconosciamo in due fatti: il primo è che la scuola deve essere la scuola di tutti, deve essere il luogo dove il modello di pluralismo, di tolleranza e di apertura che costituisce l’orgoglio e la lezione straordinaria dell’ebraismo italiano, hanno pieno diritto di cittadinanza. Il secondo è che la scuola, per esistere, deve essere una scuola autenticamente e inequivocabilmente ebraica.

Tutti noi, dal Rav agli insegnanti, dai genitori ai più giovani ebrei di Milano, dobbiamo fare i conti con questi fatti incontrovertibili.
Perché, lo ha ricordato il presidente degli ebrei milanesi Leone Soued, quando difendiamo la nostra scuola tuteliamo il nucleo, il cuore, il motore e anche la garanzia di questa comunità che siamo stati e che vogliamo continuare ad essere.

Amos Vitale (amosvitale@mosaico-cem.it)