Sei Rabbini per spiegare l’Halachà della famiglia ebraica

Ebraismo

di Ester Moscati

“La lettera di Stefano Jesurum è stata un problema per me. Ma ha avuto un aspetto positivo: mi ha costretto a rispondere pubblicamente”.

Non si nasconde dietro a un dito, Rav Arbib, rabbino capo di Milano, e spiega così la ragione per cui ha fortemente voluto questa serata, questa lezione collettiva di sei-rabbini-sei sulla famiglia ebraica e i matrimoni misti. Ma anche sulla possibilità di far convivere diversi modi di vivere l’ebraismo nella nostra Comunità.

Evidentemente il problema c’è, è sentito. Oltre 400 persone hanno affollato la sala del Noam, il 14 marzo. Un centinaio i commenti, su Mosaico, alla lettera di Jesurum e alle repliche di Rav Arbib, Rav Della Rocca, Guido Osimo, Michele Boccia e David Piazza.

Le posizioni sono anche fortemente contrapposte, pungenti. Riflettono mentalità agli antipodi, tra chi coltiva dubbi e chi costruisce muri di certezza, ma la cifra della serata è stata il rispetto reciproco pur nella sincerità per nulla diplomatica né buonista delle parole.

Rav Simantov, padrone di casa come rabbino del Noam, apre gli interventi citando Purim. Haman trama contro il popolo ebraico e per metterlo in cattiva luce presso Hachashverosh lo definisce un “popolo con più religioni. Un popolo che non è fedele alla sua origine è pericoloso anche per il Regno”. Mordechai e Ester hanno capito e hanno riunito tutto il popolo sotto un unico decreto religioso: il digiuno collettivo. Gli ebrei erano integrati e assimilati e divisi. La differenza è la forza di una Keillah, ma deve essere fondata sugli stessi principi di base uno è l’autorità dell’Halachà e della Torà devono essere riconosciute da tutti. “In tutte le generazioni ci sono discussioni rabbiniche che hanno fatto crescere l’Halachà. Ma sono e devono essere discussioni tra competenti in materia di Halachà”.

Competenti o non competenti, l’esigenza di capire come vivere insieme è di tutti e a tutti risponde Rav Arbib. Ringrazia il Vaad del Noam, tutti i rabbanim accorsi alla sua chiamata e i numerosissimi partecipanti (anche loro accorsi a una chiamata? Pare siano girate mail frenetiche, negli schieramenti l’un contro l’altro armati, per venire a sostenere i rabbini o viceversa i laici). “Perché ho deciso di proporre questa serata? Per la lettera di Jesurum. Quella lettera è stata un problema ma l’aspetto positivo è che mi ha costretto a rispondere pubblicamente. Non si parla spesso dell’argomento. Per non litigare, non creare tensioni. Perché a tutti piace il quieto vivere. Ma non è più possibile ignorare questo argomento. È un forte problema comunitario. Nella mia risposta pubblicata su Mosaico, ho dovuto affrontare vari argomenti, ma questa sera vorrei soffermarmi su uno solo: famiglia ebraica, matrimonio, matrimonio misto.

I rabbanim ne parlano poco, me compreso. Viviamo in un mondo in cui si tende ad affrontare i propri problemi, ma non quelli degli altri. La parola chiave è Tolleranza. Si dice ‘Non mi occupo di ciò che fa l’altro, perché tollero che ognuno faccia la sua vita’. È un’idea trasversale e diffusa, ma è profondamente NON EBRAICA.

Nella contrapposizione tra religiosi e laici voglio ricordare le parole di rav Weinberg sulla tolleranza: ‘non siamo tolleranti perché la tolleranza va bene tra estranei ma non tra fratelli, non tra membri della stessa famiglia. Non posso essere indifferente a ciò che succede a un fratello’. Non ho una soluzione. Ma è il problema fondamentale. Non abbiamo un futuro se non lo affrontiamo. Io non credo che sia un problema di una parte, è un problema di tutti, è un problema MIO”.

Anche Rav Di Segni dichiara da subito di non voler essere “delicato”. Il suo intervento è accompagnato da diapositive e grafici; mostra la Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, teatro degli incontri interconfessionali voluti da Giovanni Paolo II e proseguiti con malcelata insofferenza da Benedetto XVI. Ebbene, Rav Di Segni mette in guardia dal partecipare ad eventi che si dimostrano sempre irrispettosi per la parte ebraica. “Non dobbiamo cedere a queste cose. E la comunità, invece di chiedere ai rabbini di cedere, dovrebbe capire i valori che stanno dietro al nostro rifiuto di lasciarci mettere in imbarazzo, di andare contro i nostri principi”. Altra foto: il matrimonio misto di Chelsea Clinton con l’ebreo Marc Mezvinsky, con due celebranti, un rabbino e un prete. “Noi in Italia non ci siamo arrivati a questo e non ci vogliamo arrivare!”, proclama. Applausi scroscianti.

E così per questione della kasherut. “Alla massima autorità halachicha israeliana è arrivata una richiesta, da Roma, per sapere se sia lecito concedere il controllo della kashrut a un matrimonio misto. La risposta è stata negativa, perché può essere considerato un avallo al matrimonio stesso. Bisogna mettere i paletti”. Ma le parole più accorate Rav Di Segni le riserva alla famiglia, alla natalità e alla nuzialità. I grafici e le statistiche sono chiarissimi. Diminuiscono i matrimoni, aumentano i divorzi, il primo figlio si fa sempre più avanti negli anni e così resta spesso unico. Ma è tutta l’istituzione famiglia a vivere una profonda crisi: il numero di bambini che nasce fuori dal matrimonio è il 25% in Italia, il 50 % in Francia.

“Come ebrei questo ci riguarda perché il dato ebraico è il linea, anzi più grave! Siamo in via di estinzione!!!” 100 anni fa c’erano famiglie ebraiche numerose, poi c’è stata la Shoah. Poi i matrimoni misti (parte del pubblico rumoreggia sommessamente a questo paragone). “Ma se si avevano 10 figli, la famiglia poteva sopravvivere anche a questo. Oggi invece la natalità è troppo bassa e i concetti fondamentali della famiglia ebraica sono stati dimenticati. Noi non siamo aperti, siamo sfondati, abbiamo considerato normali comportamenti che non lo sono. Molto spesso ai rabbini tocca il compito di controllare chi entra e purtroppo non si riesce a fermare chi esce. Questo deve essere il compito di ciascuno di noi. Troppo abbiamo ceduto. Se non si forma una famiglia ebraica si danneggia il futuro della comunità. Non dobbiamo cedere ai compromessi”.

Niente buonismo questa sera, pane al pane e vino al vino (vin santo al vin santo…). I rabbini fanno il loro mestiere, insegnare l’ortoprassi. Così è. Così è anche per Rav Lazar. “È difficile aggiungere altre parole. Tutto è stato spiegato in maniera semplice e chiara. Che cos’è la cultura ebraica? Lo dirò con le parole di un sopravvissuto che cercava di spiegare la Shoah ad una congregazione persiana a New York. ‘Nei campi ho capito la differenza tra cultura ebraica e le altre religioni. Le altre fanno sentire bene l’uomo (to feel good), l’ebraismo lo fa essere buono (to be good). La colpa dei matrimoni misti è to feel good e non to be good. Nella Torà si dice che il mamzer, il bastardo non può entrare nella comunità, anche se non ha fatto nulla. Il bambino non ha alcuna colpa. Sono i genitori che devono capire che ci sono delle regole. To be good. L’ebraismo non è una religione, è una regola di vita. I figli devono vivere in serenità, non nei conflitti che possono nascere in una famiglia mista. Siamo un popolo antico rimasto nel mondo in modo miracoloso. Una volta ho parlato delle 7 leggi di Noè ad un pubblico non ebraico formato anche da militari della base navale di Agusta, in Sicilia. Uno mi guardava molto seriamente, poi mi ha chiesto ‘Se voi affermate che l’ebraismo è così giusto, perché non fate proselitismo?’ Ho risposto che se per i goym bastano 7 mitzvòt, perché dovremmo imporne loro 613? Dopo l’uscita dall’Egitto, il popolo ebraico è chiamato Tzivot haShem l’esercito di D-o. Se decido che voglio essere ebreo devo seguire le regole. Siamo tutti fratelli, responsabili l’uno per l’altro. Am Israel chai!”

Sull’onda delle infervorate parole di Rav Lazar, Rav Richetti, presidente dell’assemblea dei Rabbini d’Italia, decide di far leva sul fatto di essere la memoria storica della Comunità di Milano: “Ricordo ancora il tempio di via Unione, prima di tornare nel tempio ricostruito in via Guastalla. Molte volte ci sentiamo dire che noi rabbini siamo diventati molto più rigorosi nell’applicazione dell’Halachà rispetto a una volta, ma oggi la situazione è molto diversa. Di Shabbat in via Guastalla c’era tanta gente, famiglie diversissime tra di loro, anche non interamente ebraiche, perché a scuola e nel tempio venivano ‘trascinati’ con entusiasmo. Ma oggi la città, la realtà è cambiata, e per l’autorità che l’Halachà ha, deve seguire il cambiamento. Perché noi abbiamo un compito ben preciso. Ci stiamo avvicinando a Pesach. Se noi leggiamo la Haggadà, vediamo che il faraone si è accanito soprattutto sui bambini. Chiede a Moshè Rabbenu: Chi parte? Moshè risponde: Noi andremo INSIEME, giovani e anziani. Anche oggi è così. Se i giovani non sono con noi, come possiamo salire?”.

Anche Rav Della Rocca sceglie i toni della drammaticità e della chiarezza, benché si avvalga di metafore e paradossi: cita la  Parashà dello scorso Shabbat, Ki Tissà, un passo drammatico, il vitello d’oro, l’idolatria. Moshè rompe le tavole. Se la parola di HaShem rischia di diventare pietrificata, bisogna avere il coraggio di romperle. Ma quando il Signore vuole distruggere il popolo, Moshè lo difende, sta dalla sua parte. “Rav Arbib ha dato stasera un messaggio alla sua comunità, ha rotto le tavole, non potete pensare che la comunità diventi una scatola vuota, senza contenuto. Non possiamo farci solo compatire, parlare di Shoah”. L’ebraismo è vivo, è vita, è quotidiano. “Rav Arbib sta con il suo popolo. Ma c’è oggi un approccio aggressivo contro i rabbini, solo per contestarli, per strappare loro un avallo, contro Halachà. I rabbini sono sviliti nella loro funzione di guide. Stasera è pieno, ma non così alle lezioni dei rabbanim. Con tutto il rispetto per il mio maestro Rav Di Segni, i numeri mi stanno sullo stomaco, perché noi ebrei siamo una sfida ai numeri. È una paranoia che ci fa perdere il fine. Ogni volta che la Torà conta gli ebrei usa il verbo ‘alzare’. Dobbiamo alzare la testa, in ogni ebreo c’è un valore. Ma c’è anche chi usa l’argomento dei numeri per favorire i ghiurim. Questo è un disprezzo per il gher, che non deve essere sfruttato per fare numero. Possiamo accettare un ghiur solo a queste condizioni, che sia accettato, amato. ‘Pochi ma buoni, la limpiza de sangre’ sono concetti che non c’entrano nulla con la Torà. La Torà dice che è meglio un mamzer che studia la Torà piuttosto che un cattivo mastro. La Torà dice che un ebreo vale per quello he FA. Ruth è il paradigma del ghiur e la madre del Maschiach; anche se viene dal popolo più distante, diventa la più vicina. Si legge nella Torà che i nemici riusciranno a indebolire il popolo attraverso unioni sessuali illecite. C’è il tremendo episodio di Pinchas. Ma non tutti possono né devono essere un Pinchas. È un caso unico. Il midrash ha sdrammatizzato il passo: dicendo che la lancia è ‘248′ non una lancia ma Shemà Israel. A tutti gli ebrei che vogliono legittimazione, dobbiamo fare di tutto perché rientrino nello Shemà Israel, non c’è esclusione per nessuno, le porte della Teshuvà sono aperte a tutti”. Il tema dei ghiurim, conclude Della Rocca, ci coinvolge da almeno vent’anni. Il problema è anche quello dei figli di madre ebrea, che non vengono abbastanza educati. L’educazione come pratica quotidiana, la Torà, deve essere sempre presente. In ogni ebreo c’è un pezzo di un altro ebreo. A Milano, Gracchi, Guastalla, Lubavich… siamo tutti pezzi della stessa cosa.

Rav Arbib apre agli interventi, ma aggiunge che tra i discorsi di Rav Di Segni e Rav Della Rocca c’è una diversa valutazione dei numeri. La situazione è drammatica oggettivamente ma tante comunità in Italia, pur essendo piccolissime, facevano tutto il necessario, c’era il Talmud Torà, la sinagoga, lo shochèt, il mikvé… e tutti si impegnavano nei luoghi che formano la comunità. Ogni momento della comunità deve essere vissuto insieme. Tutti i templi sono una ricchezza per la comunità di Milano la vita ebraica non può essere delegata a nessuno.

A Yoram Ortona il compito di moderare il dibattito “Abbiamo ascoltato riflessioni molto profonde e anche indicazioni di vita. Nel segno del rispetto. Lo stesso rispetto che chiedo agli interventi”.

Roberto Jarach

Riconosco i miei limiti e quindi voglio solo riprendere un punto di Rav Arbib, “mi sono sentito di dover rispondere pubblicamente”. È l’unico modo; la comunità vuole avere una guida. Temi scomodi; ma che vanno trattati perché siamo una comunità giovane e molto variegata. Sensibilità diverse, che la comunità ha cercato di unire senza cancellare le diversità. La Scuola ha una grande importanza nell’unire le varie componenti e la Comunità la sosterrà sempre con ogni mezzo.

Ghidon Livian

Sono venuto perché mi è stato detto: andiamo a difendere i rabbini. Ma ci sono stati applausi bipartisan per i loro discorsi. La lettera di Jesurum l’ho letta, vorrei chiedere perché 40 firme? Non pensa che una lettera opposta potrebbe avere 800 firme? Lo scopo qual era? Compattare la comunità? C’è riuscito! Arrivare a qualcosa, avallo dei rabbini per comportamenti non ortodossi? Difficile!

Stefano Jesurum

Io sono un ebreo di Milano; ho scritto per una richiesta di dialogo: parliamoci. Di questo tema si parla in tutte le comunità del mondo ma qui se ne parla molto poco. Sono contento di avere scritto quella lettera anche solo per questo. Le 40 firme: mi sono consultato con amici che hanno voluto condividerla. Non è una guerra. Ho scritto perché è un tema che riguarda tutti, non cerco avalli, a cosa, poi? Avere un figlio che sposa un ebreo è un merito della famiglia e una grande fortuna. Sposare un non ebreo/a è un dolore, ma non mi piace il paragone con la Shoah.

Io non ho niente contro i rabbini, rav Richetti lo sa! Della gioia che è stata per me la scuola come padre.

Io non ho né da chiedere né da avere nulla. Se non si parla di questo la comunità ha da perdere moltissimo.

Rosanna Supino

Bisogna distinguere tra chi porta persone alla comunità, e chi li porta via. A chi vuole un banchetto kasher per un matrimonio misto, si dovrebbe dire di sì perché significa che quella famigli vuole avere un legame con la comunità. Se seguiamo le regole proposte dal rabbinato, una coppia che contrae un matrimonio misto avrà un figlio ebreo (se la madre è ebrea) ma non un catering cacher; e questo mi sembra contradditorio.

Michele Boccia

Dobbiamo fare uno sforzo per formare famiglie ebraiche, io come genitore penso che si debba far frequentare la scuola fino al liceo. Vorrei chiedere a Rav Arbib e Rav Di Segni che cosa si può fare come comunità per questo.

Hazan

Una sola domanda a Rav Arbib. Perché non ha organizzato questa serata in Guastalla?

Rachel

Sono felice di questa serata, c’è una sofferenza vera e ci vuole rispetto, come genitore spero che i miei figli formino una famiglia ebraica, ma se questo non succedesse vorrei che si potesse fare qualcosa e dare delle regole precise per avvicinare le famiglie miste.

Riccardo Hoffman

Le Politiche dell’avvicinamento vanno perseguite sia dai rabbini sia nell’ambito laico.

Mary Ghoary

Stiamo parlando di famiglie ebraiche… Ma dopo il liceo? I nostri ragazzi se ne vanno via perché qui non c’è nulla.

Silvia Tedeschi

Nessuno chiedere il parere dei figli, perché i figli vogliono uscire dalla scuola ebraica dopo le medie? A scuola ci sono problemi perché non si è accettati se non si è di un certo ambiente o di un determinato ceto. Si dovrebbero insegnare valori che vadano al di là del ceto.

David Fargion

La nostra religione crea ponti, sono contro tutto ciò che crea crateri. Favorire l’avvicinamento. Dire no al catering kasher è un colpo basso per una famiglia che lo richiede; non aspettiamoci che si avvicinino. Si crea un disamore che porterà molto lontano.

Shalom Korbman

Mi sono piaciute le statistiche di Di Segni. Le comunità si stanno spegnendo, mentre si va verso una maggiore osservanza halachica. È questo che provoca lo “spegnimento”?

A questi interventi, i rabbini hanno risposto, apprendendo le questioni sollevate nel primo giro di interventi.

Rav Di Segni

La comunità di Carmagnola, che contava 120 persone nell’epoca migliore, c’è uno splendido beth hakenesset con un minuscolo talmud torà con banchi atti ad ospitare bimbi e ragazzi di tutte le età. Non rinunciavano allo studio Non dobbiamo dimenticare l’importanza di ogni bambino.

Sulle statistiche, il demografo Della Pergola era stato catastrofico nella sua analisi che risale a viversi anni fa, e le cose stanno andando così e non possiamo far finta di niente. Dobbiamo fare le nostre scelte in autonomia e secondo le regole ebraiche.

Rav Arbib

Perché non in Guastalla? Ho organizzato molte cose in via Guastalla, ma considero anche questa casa mia, perché sennò che comunità siamo? In questa sala è iniziata per iniziativa di Rav Della Rocca il Centro Studi e Formazione. Guastalla viene visto come il tempio italiano e non volevo che il tema del matrimonio misto fosse visto come un problema italiano.

Sul problema del catering kasher a un matrimonio misto, io non posso non dare una risposta halachica. Non voglio fare del male a qualcuno, ma la mia posizione è di non avallare il matrimonio misto. Niente di quello che facciamo è neutro. Il problema è fare chiarezza sul concetto di “avvicinare a cosa e allontanare da cosa”. Non si possono dare messaggi confusi. Vedere un film israeliano e leggere letteratura yiddish non è avvicinare all’ebraismo, è cultura personale. Dare messaggi contraddittori dal punto di vista educativo è micidiale. Il mio messaggio vuole essere chiaro. Il matrimonio misto è uno sbaglio.

Rav Della Rocca

L’intervento di Stefano Jesurum è un grido di dolore, un problema che riguarda tutti.

Ci sono progetti ad hoc per i percorsi di avvicinamento. Ma va riconosciuto che il disagio dei non religiosi ha il contrapposto nel disagio dei religiosi. Non è piacevole essere considerati retrogradi, ottusi, solo perché si vogliono seguire le mitzvot.

Rav Richetti

Rispondo a Korbman. L’aumento di rigore nell’applicazione dell’halachà è la causa dell’allontanamento? Di fatto, se è stata scelta una linea di condotta è stato perché ci si è resi conto che le risposte non erano adeguate. Vent’anni fa sono stati convertiti 127 bambini, è venti anni dopo, di questi nuovi ebrei, iscritti in comunità ce n’erano venti. Abbiamo capito che non avevamo fatto un buon servizio alla comunità.

Come presidente dell’Assemblea Rabbinica voglio dire che il nostro compito come rabbanut è di spiegare e aiutare a capire la Halachà.

Rav Simantov

A proposito di numeri. Negli anni Trenta emigrarono negli Stati Uniti dalla Grecia 500 famiglie, e dalla Siria 150. Oggi i greci sono 0 e i siriani 25.000. I siriani hanno deciso, all’epoca della loro emigrazione, di non accettare conversioni, per nessun motivo; per questo sono cresciuti. Occorre essere duri con gli individui per proteggere la comunità.