di rav Alfonso Arbib, rav Roberto Della Rocca
Uno dei brani più noti della Haggadà di Pèsach è Avadìm hayìnu. Ne citiamo una parte: “Siamo stati schiavi del faraone in Egitto … e se Dio non avesse fatto uscire i nostri padri dall’Egitto, noi, i nostri figli, e i figli dei nostri figli saremmo ancora schiavi del Faraone in Egitto”.
Rav Arbib: due diversi tipi di schiavitù
I commentatori pongono alcune domande su questo brano.
1. Perché ripetere per due volte “Del faraone in Egitto”? Se si è schiavi del faraone è ovvio che si sta parlando dell’Egitto.
2. Che senso ha dire che noi, i nostri figli, i figli dei nostri figli saremmo ancora schiavi? Sembra una negazione della storia. I faraoni sono scomparsi e anche l’Egitto descritto nella Torà non esiste più. Rav Eliahu Dessler propone una risposta a queste domande attraverso l’interpretazione delle parole Par’ò (faraone) e Mitzràim (Egitto). La parola Mitzràim deriva dalla radice metzàr che significa ristrettezza, chiusura. L’Egitto è un’immensa prigione in cui si è ristretti e da cui è impossibile uscire. Secondo il Midràsh nessuno schiavo prima degli ebrei è mai stato liberato dall’Egitto.La parola Par’ò invece deriva da una radice che significa apertura, libertà (parù’a in ebraico moderno vuol dire selvaggio). Proviamo ora a tradurre il passo di Avadìm hayìnu basandoci su questa interpretazione. Viene fuori qualcosa del genere: siamo stati schiavi dell’apertura nella chiusura. È una frase apparentemente senza senso; in realtà secondo Rav Dessler questo passo indica due tipi diversi di schiavitù. C’è una schiavitù che può essere identificata con la parola Mitzraim. L’uomo che non è libero di parlare, camminare, uscire, entrare senza che ciò gli sia ordinato dal padrone, è un uomo continuamente ristretto, imprigionato. L’Egitto era sicuramente questo: costringere gli uomini a lavori sfiancanti, umilianti, spesso inutili che avevano lo scopo di dimostrare che quegli uomini non erano uomini ma oggetti in mano al padrone che poteva disporne a piacimento. Ma c’è anche un altro tipo di schiavitù ed è quella rappresentata nella parola Par’ò. In Egitto non c’erano regole morali per gli schiavi, a loro era permesso qualsiasi tipo di comportamento senza remore e senza limitazioni. In un passo della Torà gli ebrei rimpiangono l’Egitto in cui si mangiava gratis e il Midràsh si chiede come potevano parlare di cibo gratuito visto che lo pagavano con un lavoro terribile. Il Midrash risponde che essi intendono dire “gratis dalle mitzvòt”. È vero, in Egitto si lavorava tanto, si era oppressi e perseguitati ma non c’erano regole da seguire all’infuori di quelle imposte arbitrariamente dal padrone. La mancanza di regole, la libertà assoluta e selvaggia è in realtà un’altra prigione perché è libertà di seguire i propri istinti e i propri desideri. Questa situazione, apparentemente ideale, può in realtà toglierci quella che è la libertà fondamentale dell’uomo, la libertà di pensiero. Un grande Maestro dell’Ottocento, Rabbi Israel Salanter dice che a volte il pensiero dell’uomo è un pensiero corrotto e la corruzione deriva dalla volontà di soddisfare i propri desideri. Salanter spiega che quando desideriamo qualcosa di sbagliato, il nostro pensiero ci frena e ci impedisce di realizzare un desiderio che può essere deleterio per noi o per gli altri. Ma a volte il pensiero viene corrotto dal desiderio e trova una giustificazione alla soddisfazione del desiderio stesso.
Il passo della Haggadà che stiamo commentando dice che se Dio non avesse liberato i nostri padri dall’Egitto saremmo ancora schiavi dell’Egitto. Abbiamo detto che questo passo sembra una negazione della storia, non è così. L’Egitto sarebbe comunque finito prima o poi, i faraoni sarebbero scomparsi prima o poi ma se il faraone fosse riuscito a renderci schiavi nel pensiero, quella schiavitù non sarebbe più scomparsa. Il Maharal di Praga si chiede perché insistiamo tanto a ricordare l’uscita dell’Egitto, dopotutto ci sono state altre dominazioni e siamo tornati a essere schiavi di altre nazioni; e risponde che dopo l’uscita dell’Egitto noi possiamo essere sempre schiavi di qualcuno ma rimarremmo sempre liberi nella nostra essenza.
Rav Della Rocca: senza korban non c’è libertà
Spesso pensiamo a Pesach in termini di ricomposizione dei conflitti generazionali, l’occasione per un rilancio del dialogo tra genitori e figli: la festa spesso è come un’agenzia pedagogica, sia nel porgere conflitti (battibecchi, incomprensioni…), che nel ricomporli. Ma Pesach è per me, oggi, anche un grande spunto per parlare un po’ di Comunità in termini positivi, costruttivi. Diciamo che l’origine di tutti i momenti religiosi che viviamo a Pesach viene dal capitolo 12 di Shemot, col korban Pesach: è intorno al sacrificio che gira tutto il resto. Nel korban-sacrificio di Pesach, Israel nasce come comunità, come popolo. È scritto che questo sacrificio deve essere consumato all’interno di un nucleo familiare il quale deve essere scelto secondo le capacità alimentari di ciascuno, tant’è che se una famiglia è piccola dovrà associarsi a un’altra famiglia. Ecco dove si origina il concetto di famiglia-comunità. Lo vediamo nella stessa etimologia della parola korban Pesach, -l’agnello pasquale-: in verità korban è sinonimo della parola avvicinamento, il korban, è l’avvicinatore, colui che avvicina, e se Pesach significa il salto dalla schiavitù alla libertà, il korban è l’avvicinatore del salto, ciò che ci permette di farlo. Saltiamo dentro una condizione di libertà solo col sacrificio. Inoltre, la Torà dice che tutta la kehillà, la congrega di Israele, sgozzerà un agnello al vespro, al tramonto. Eppure il Talmud si interroga su come sia possibile che tutti gli ebrei compiano il sacrificio, poiché non ci sono di certo abbastanza agnelli per tutti e quindi la cosa è irrealizzabile. Il Talmud ci spiega che da questo rito dello sgozzamento dell’agnello pasquale s’impara un grande concetto giuridico: ovvero che il delegato di una persona è come la persona stessa.
Poiché non tutti possono sgozzare l’agnello ci saranno persone delegate a shachtarlo. Il delegato è tale solo se è come la persona stessa che lo delega. Che significa questo? Che si nasce come popolo e Comunità solo quando c’è la capacità di affidare una delega a qualcuno dandogli la fiducia di rappresentarci. E che se il delegante è colui che ha concesso fiducia, dal canto suo il delegato è colui che è capace di assumersi il carico di responsabilità a lui affidato. Questo interscambio è alla base di tutto. Molto spesso diciamo in modo paradossale che l’ebraismo è una religione laica, e questo è senz’altro vero, perché nell’ebraismo non vige il concetto di intermediazione, non c’è nessuno che si possa sostituire a noi nel rapporto col divino. Vuol dire anche che per noi un delegato, -un rabbino o hazan-, non è un emissario solitario che lavora nella sua torre d’avorio, nell’ascetismo o nella sua campana di vetro. Anzi. Se il delegato non è sostenuto dal delegante, tutto ciò che fa non ha nessun valore. La mitzvà, ad esempio, di circoncidere un figlio spetta al padre ma per questioni tecniche e psicologiche egli non lo fa mai personalmente e così delega al moel di fare per lui questa mitzvà. Per questo è scritto che deve stare praticamente accanto al moel durante la milà, perché è come se la mitzvà la facesse egli stesso. Non c’è quindi un funzionario del culto che sta dietro, che fa al posto nostro mentre noi ci facciamo gli affari nostri. No. Noi rispondiamo “amen” nella tefillà perché siamo chiamati a esserci, appunto a rispondere e partecipare attivamente. E questo è, secondo me, un messaggio di Pesach molto attuale oggi nella nostra Comunità: ossia coltivare la capacità di dare fiducia a coloro che abbiamo scelto di rappresentarci. E allo stesso modo far sì che i delegati, a loro volta, sentano tutto il peso della delega affidata loro, dell’essere portavoce dei bisogni e desideri degli elettori. Questo risvolto politico-giuridico della lettura del korban è secondo me tra i più attuali. Il sacrificio è l’essenza stessa, il cuore della festa. Ma oggi è stato sostituito dal rito del Seder. Il korban, il sacrificio, è passato un po’ in secondo piano. Oggi il Seder di Pesach ci invita al rilancio del progetto fiducia che inizia in famiglia. Sarà forse un paradosso ma l’ultimo dei profeti di Israele, Malachia, vede nella redenzione messianica la riconciliazione tra genitori e figli, “riporterò il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri”, dice, e non ci sono visioni idialliache, tipo lupi che pascolano con agnelli. Pesach è una situazione prodromica dell’era messianica: se si risolvono i conflitti dentro le mura domestiche, se questo accade, si abbasserà la conflittualità anche dentro la società e la comunità in cui si vive. La conflittualità comunitaria, che oggi è molto forte, c’è anche perché troppe persone sono in guerra con se stesse e con i propri pezzi più intimi, con relazioni familiari difficili. Se fosse gestita meglio nella propria casa, ci sarebbero meno comportamenti aggressivi anche a scuola o in comunità. Vedo il Seder come una specie di terapia familiare, una sorta di psicoterapia, appunto “riporterò il cuore dei padri verso i figli…” Nella Mishnà (alla fine del trattato di Sotà), si dice: la vigilia dell’era messianica sarà preceduta da un’era di grande arroganza, in cui i giovani non avranno rispetto per le generazioni più anziane, saranno insolenti e si ribelleranno ai genitori. Ma se sono i figli a essere aggressivi verso i genitori, allora perché il profeta Malachia dice che sono invece i padri a dover andare verso i figli? Perché da sempre, nella pedagogia ebraica, sono i padri che devono riportare i loro cuori verso i propri figli e mai viceversa. Se un fanciullo o un discepolo si perdono, la responsabilità è dei genitori e dei maestri. Il primo passo parte sempre dal grande. Nel korban Pesach è la prima volta che il popolo ebraico è definito in tutte e tre le sue accezioni: Kahal, Eda, Israel. Tre livelli di progressivo sviluppo: Kahal è una comunità di persone che si raggruppa e che sta semplicemente insieme; ma Eda è il simbolo della testimonianza, del perché stiamo insieme e del fatto che abbiamo un testimone da consegnare. Pesach è anche un invito a non fermentare dentro se stessi, a non gonfiarsi, a non far crescere l’ego. Pesach ci dice che per attutire la conflittualità dobbiamo rinunciare a “lievitare”. La matzà è il pane sottile, il pane dell’afflizione, che rimanda alla povertà, al togliere, al levare, pane che si consuma in fretta, scomodi, in uno stato di difficoltà. È un pane potenziale, rappresenta ciò che potrebbe trasformarsi in pane ma che non lo diventa. C’è questo controllo ferreo a che non lieviti e non si gonfi. Ora, tutti abbiamo energie negative, e aggressive. Dobbiamo analizzare queste energie come il rapporto tra matzà e chametz; quello di Pesach sarà un pane semplice e sottile ma è il pane della libertà, quindi attenti a che non gonfi, a che non fermenti. È la fondazione del principio di responsabilità. Ricordiamoci quindi di non essere troppo lievitanti. Il pane, da sempre, è essenziale e importante. Ma per capire l’uso giusto del pane bisogna avere introiettato bene l’idea di che cosa sia la matzà. In fondo il sacrifico della festa di Shavuot, che avviene dopo Pesach, è l’unico in cui si può portare il chametz. Perché? Semplice, perché il percorso con cui abbiamo introiettato la matzà è già stato compiuto.