di Rav Roberto Della Rocca
Il 20 settembre si è tenuto un importante incontro-dibattito sul tema “Scuola ebraica o Scuola per ebrei? Quale vision e quale mission per una scuola ebraica oggi?”.
Rav Della Rocca, direttore del Dec, dipartimento educazione e cultura-Ucei spiega perché ha voluto questo incontro, cui hanno partecipato diversi Rabbanim, Alfonso Arbib, Roberto Colombo, Benedetto Carucci Viterbi, David Cohenca, Igal Hazan. Tutti rabbini che hanno un ruolo di guida nelle strutture educative delle Comunità di Roma e Milano.
Per i tempi tecnici di stampa del Bollettino, il resoconto della serata con la sintesi degli interventi, subito pubblicata su Mosaico, sarà stampata sul Bollettino di novembre.
Le scuole ebraiche sono oggi scuole ebraiche, scuole degli ebrei o scuole per ebrei? I nostri istituti sono stati e continuano a essere uno spazio di approfondimento e di confronto fra diversi modelli di vita ebraica, nel rispetto delle varie sensibilità. Anche se nella maggior parte dei casi a importare è più una formazione etica e storica che la condivisione di una fede e di una prassi.
È tuttavia sufficiente questo per parlare di educazione ebraica? Il processo educativo non può esaurirsi solo nella trasmissione di nozioni, sensazioni interiori e storia passata. Alle strutture educative e al rabbinato spesso le famiglie delegano tutta la responsabilità dell’educazione dei loro figli, esentandosi così dal compito di educatori in prima persona. Così, il Maestro/Rabbino è spesso raffigurato come quel limite estremo di ebraismo da cui apprendere cultura, senza tuttavia cercare di imitarne il modello di vita. Questo atteggiamento non è solo il fallimento di una struttura educativa, ma quello di una Comunità che non riesce a trasmettere l’ebraismo come cultura quotidiana che si esprime attraverso le azioni.
Lo studio della Torà è sempre stato considerato fondamento dell’esistenza ebraica: uno studio non fine a se stesso, ma teso ad apprendere gli insegnamenti di vita e le norme da applicare. Il sistema educativo ebraico non è dunque un sistema basato sul passaggio dalla teoria alla pratica, ma funziona nella direzione opposta, dalla pratica alla teoria, senza il prevalere di un aspetto sull’altro.
Oggi assistiamo allo sviluppo di nuove forme di consapevolezza e di conseguenza a inevitabili lacerazioni. Rispetto alle generazioni precedenti, oggi abbiamo l’opzione della libertà: dalla costrizione, dalle persecuzioni e dalla omogeneizzazione culturale.
Siamo ebrei che hanno scelto coscientemente di trasmettere l’identità ebraica. È finito il tempo in cui lo studio e l’osservanza erano scaricati a un gruppetto, al “clero”.
Non siamo più testimoni di quella separazione che vedeva disgiunti e incompatibili il raggiungimento di traguardi nella vita politica e culturale della società dai compiti “religiosi” delegati a coloro che ricoprivano un ruolo cui non veniva riconosciuto alcun valore e in cui la pratica dell’ebraismo sembrava il residuo di un passato di cui sfuggiva il senso.
Si inizia a capire che tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri e i rabbini si devono distinguere soprattutto come Maestri, il cui ruolo primario è aiutare e promuovere la sempre più diffusa riscoperta di vita e cultura ebraica. Non si è mai affrontata culturalmente e concettualmente in maniera seria questa questione, lasciando che l’ebraismo italiano mostrasse così un volto diverso da quello vero.
Cosa intendiamo quando parliamo di Torà: cultura, etica, norma oppure quello che gli “ortodossi” chiamano Torà? Siamo testimoni del fenomeno di ragazzi che frequentano per anni le istituzioni socio-educative ebraiche e poi repentinamente si allontanano.
Non siamo abbastanza consci dell’inadeguatezza dell’educazione ebraica, dovuta soprattutto alla mancanza di un obiettivo definito che riguarda il tipo di ebreo che vogliamo aiutare a formarsi. Affinché l’ebraismo sia considerato importante nella vita dei nostri figli, esso deve comprendere una sincera dimensione di contenuti maturi e non rimanere a un livello infantile. Quando la cultura ebraica resta passiva, non frequentemente vissuta, o un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante, perfino banale, se paragonata alla cultura dominante in cui viviamo.
Il problema nasce, secondo me, dal fatto che la nostra concezione dell’educazione ebraica la considera troppo spesso un complemento relegato nei ritagli di tempo. È un approccio di natura letteraria, romanzesca, alla propria identità, che genera una visione della vita ebraica quasi fosse una realtà virtuale, una gloria del passato.
Dobbiamo iniziare a sviluppare una visione dell’identità ebraica attuale e autonoma, una concezione qualitativa, che sostituisca quella che la pressione sociale esercitata dalla realtà circostante propone, o talvolta impone, una diversa idea dell’esistenza meglio confacente alle esigenze della vita ebraica. Fare educazione significa lavorare sulle proprie rappresentazioni di sé e del mondo: qual è l’immagine culturale ebraica che vogliamo acquisire e comunicare? Questo è il quesito che dobbiamo porci e le risposte che daremo saranno decisive per le nostre scelte e tali da misurare il valore che ha per noi tutti l’educazione ebraica dei nostri figli.