di Rav David Sciunnach *
Insinuazioni, critiche, opposizioni e provocazioni da sempre accompagnano la storia degli esseri umani. La questione è se rispondervi o meno e, nel caso, quando e come. Possibilità entrambe contenute nel Tanakh. Personalmente, credo sia giunto il momento di puntualizzare in maniera molto chiara alcuni fatti e questioni.
Come tutti, ho letto anche io la melliflua e ormai celeberrima intervista rilasciata tempo fa da Guido Vitale su Ha Keillah, come pure ho letto l’intervento del rabbino Pierpaolo Punturello.
In particolare, in relazione, al secondo intervento, vorrei ricordare alcuni punti fermi. Quando si fanno dichiarazioni così forti, bisognerebbe quantomeno vivere in un luogo, conoscerlo a menadito, esserci. Non basta esserci stati o essere in contatto, magari anche con molte persone, tramite i social media e il sentito dire: occorre una presenza fisica continuativa, calata nel contesto. In relazione al rabbino Punturello, vorrei ricordare che Rav Laras z’z’l, assieme ai rabbini che con il Maestro collaboravano con regolarità, si spese molto e personalmente per farlo progredire negli studi, in particolare per fargli conseguire il titolo di Maskil per poi studiare presso la yeshivah del rabbino Riskin. Era chiaro che, da parte nostra, espressione del tanto vituperato rabbinato italiano, si trattava, come in altri casi, di un investimento sul futuro delle nostre comunità (peraltro ampiamente autofinanziato proprio dagli introiti di quella kasherut così esecrata), credendo Rav Laras nella pluralità di posizioni in seno all’ebraismo ortodosso. Poi Pierpaolo ha deciso di non rientrare in Italia, di vivere prima in Israele e oggi in Spagna. Scelte rispettabilissime, che in larga misura posso comprendere e condividere. In Israele c’è la continua possibilità di crescere negli studi e si è religiosamente aperti a mille sollecitazioni; non c’è problema alcuno per la crescita ebraica dei figli, cosa fondamentale, come del resto in Spagna, essendoci colà scuole ebraiche. Tornare in Italia, significa spesso servire comunità decentrate, sguarnite di scuole ebraiche (laddove, per ‘ebraiche’, si intende, in vario modo e con varie declinazioni, ‘religiose’); povere nei servizi di kasheruth; in cui l’attività religiosa più frequentata sono i funerali e dove, se c’è un matrimonio, è misto o, se si tratta di nascite, si sollecita una conversione. È troppo facile criticare dal di fuori situazioni di tal fatta, senza ‘sporcarsi le mani’. Se il rabbino Punturello desidera davvero aiutare l’ebraismo italiano e il suo rabbinato, che si candidi, come spesso in questi anni ha avuto possibilità, a rabbino-capo di una piccola o media comunità italiana, per aiutarle e per aiutarci, con oneri e onori. Scelta che, tuttavia, non ha fatto, come testimoniato dai fatti e non dai proclami.
Certamente i rabbini commettono errori, tuttavia i rabbini non sono preti e da noi esiste la libertà personale della singola persona ebrea, espressa in scelte individuali. In moltissime comunità la disaffezione degli iscritti verso la tefillah e la kasheruth è elevatissima, sia per mode intellettuali e ideologico-politiche, sia per diseducazione (e lì possiamo parlare di responsabilità rabbiniche), sia per scelte personali. Quando a tutto ciò si assommano demografie comunitarie con pochi iscritti, spesso mediamente molto in avanti con gli anni, è evidente a tutti che ‘il re è nudo’: non il rabbinato, che non deve essere un tappabuchi (può esserlo, certo, ma per urgenze, e non in via ordinaria), bensì l’ebraismo italiano. Dopo un’esistenza più che bimillenaria, molte ipoteche gravano sull’ebraismo italiano e sul prosieguo a medio e lungo termine della sua esistenza, per come l’abbiamo conosciuto.
Ma l’ebraismo italiano, nelle sue dirigenze -e da anni-, questo problema strutturale non vuole affrontarlo, perché ci mette con le spalle al muro, ci carica di angosce, ci obbliga a ripensarci ed è, in definitiva, molto doloroso. Non solo, assumere questa prospettiva, ci mette in rotta di collisione con l’immagine, utile per l’esterno e ammaliante per alcuni all’interno, veicolata istituzionalmente in questi anni da Pagine Ebraiche. Le nostre dirigenze su questo fatto epocale evidente a tutti hanno deciso, per mille motivi, forse anche per ‘carità’, di mettersi due spesse fette di salame sugli occhi, di non sostare per imboccare un nuovo paradigma programmatico, e di adottare la politica bertiana di ‘finchè la barca va…’.
Vorrei essere molto chiaro: certamente noi rabbini commettiamo errori, purtroppo anche gravi, a cui non sempre è facile rimediare, proprio perché commessi da noi, disattendendo alla fiducia e all’autorevolezza riposte nel ruolo e nella persona del rabbino. Tuttavia, per quello che riguarda le conversioni, mi sono convinto che il problema principale, oltre alla serietà e alla consapevolezza dei candidati, come pure del tribunale rabbinico giudicante, ampiamente dimori nella comunità che dovrebbe accogliere i neofiti.
Molte nostre Comunità sono purtroppo sovente ebraicamente inospitali: non ci sono servizi di kasherut, ristoranti kasher, tefillot con minian garantito, possibilità serie di studio almeno settimanale, coetanei correligionari da frequentare con simili prospettive e così via. In simili contesti è impossibile -fatte le dovute eccezioni che, come per ogni realtà, esistono- convertire chicchessia, proprio perché la persona è calata in contesti ebraicamente desertici. Infine, sempre riguardo alle conversioni, ricordo che esiste la Conferenza dei Rabbini d’Europa (CER), di cui siamo membri, che cerca di uniformare, fare ordine e dare degli indirizzi condivisi. Ebbene, uno degli orientamenti assunti a maggioranza e vincolante per i vari tribunali rabbinici operanti è quello che fortemente sconsiglia e scoraggia di convertire persone che vivano in contesti lontani da una comunità ebraica, dove per comunità ebraica si intende una comunità che garantisca realmente e operativamente, in via ordinaria e il più possibile quotidiana, -e non sulla carta-, minian, miqveh, talmùd Torah, servizi kasher.
Rav Laras negli ultimi anni aveva fatto un rapido calcolo delle conversioni operate dal dopoguerra a oggi dai vari tribunali rabbinici esistenti. Si tratta, come lui stesso scrisse pubblicamente, di alcune migliaia. Vorrei ragionare su questo dato. Non esiste al mondo, dati inoltre i numeri relativamente esigui dell’ebraismo italiano anche quando si era in 45.000, altro ebraismo ortodosso che si sia comportato de facto, più che de jure, in questo modo. Siamo stati, cioè, nel bene e nel male, un ‘case study’. Molti ritengono, per lo più in buona fede, che, per arginare l’assimilazione e la contrazione demografica, la conversione dei minori sia stata la pratica migliore. Ebbene, dal dopoguerra a oggi, nonostante migliaia di conversioni, siamo calati da 45.000 circa a poco più di 20.000. ** Dagli attuali 20/25.000 ebrei dimoranti in Italia, bisognerebbe poi sottrarre le migliaia di ebrei esuli da Siria, Libano, Libia e Persia qui pervenuti recentemente.
Tradotto: il numero degli ebrei di tradizione italiana, nonostante il ‘case study’ delle conversioni alla nascita, si è dimezzato in qualche decade eminentemente per le scelte di vita, certamente rispettabili ma poco ‘ebraiche’, dei suoi aderenti. Il largheggiare delle conversioni, cioè, anche dal punto di vista sociologico, non ha per nulla funzionato, con l’effetto deleterio di una tacita accettazione del fenomeno del matrimonio misto in seno alle nostra comunità. Per converso, negli ambienti rabbinici di tutto il mondo ortodosso, dalla Modern Orthodoxy americana al London Beth Din, dagli ambienti sefarditi orientali ai chassidim, sino al Rabbinato di Israele, l’eccessiva pratica conversionistica ha contribuito a erodere enormemente la credibilità del rabbinato italiano. E noi oggi non viviamo più nel ‘piccolo mondo antico’ dell’ebraismo borghese, emancipato e decadente, magistralmente immortalato da Giorgio Bassani, ma in un mondo assai più ampio, a cui dobbiamo inevitabilmente e giustamente rendere conto.
Noi non possiamo convertire persone all’ebraismo perché si tratterebbe di una ‘sciccheria intellettuale’, né perché Woody Allen è ebreo, né perché possediamo il fascino del ‘popolo sopravvissuto’, né perché si possano esibire ascendenze ebraiche di sorta, né -cosa assai più delicata, rispettabile e seria- per pacificare le tensioni in una famiglia ‘mista’ o l’identità e il senso di appartenenza di una ragazza o di un ragazzo in crescita, né per stemperare il senso di colpa di chi legittimamente ha fatto delle scelte senza tener conto delle conseguenze. In primo luogo, ciò che conta ed è essenziale è il servizio da tributarsi a Dio onnipotente, che ha scelto Israele come Suo popolo prezioso, sancendo ciò con l’osservanza delle mitzvoth: attaccamento al Popolo Ebraico e a Dio, tefillah, osservanza dello Shabbat e della Kasherut, studio della Torah, questi sono i pilasti richiesti. Si tratta di forme di vita complicate ed esigenti, talora scomode, che richiedono aggregazione sociale, studio, tempo e dedizione, persino una certa tenacia (forma di vita rispetto a cui ognuno, chi più chi meno, è in difetto, con alti e bassi, con contraddizioni persino, ma con questo come fermo ideale). Senza questo è impossibile convertire, perché questo è richiesto.
Circa l’affaire reform è il caso -e si è in grande e grave ritardo, ed è un errore commesso da tutti noi rabbini italiani- di fare chiarezza su alcuni punti imprescindibili. Il problema, in primo luogo, non è che gli atti religiosi e giuridici dei reform siano o meno riconosciuti dal rabbinato di Israele, né è una questione di potere religioso, e nemmeno il problema dimora nel fatto che i reform siano molto ricettivi nei riguardi di certe istanze comportamentali della più liquida e progressista società americana contemporanea. I problemi sono altri e ben più seri.
Anzitutto, quando si parla di ‘ebrei’ reform, occorre fare dei distinguo. Fino al 1983 gli ebrei nati in seno alla Riforma erano halakhicamente ebrei. Nel 1983 da parte loro si è accettata l’ascendenza patrilineare per l’ebraicità dei figli. Conseguentemente, dopo 35 anni, oggi moltissimi iscritti all’ebraismo riformato semplicemente non sono ebrei, secondo i criteri non solo dell’ortodossia -e, almeno sinora, del mondo conservative- ma degli stessi reform sino a pochi decenni fa. Da molto più tempo, invece, sono nulli gli atti ‘rabbinici’. Che s’intende? Per un ghet (divorzio), per esempio, è necessario un tribunale rabbinico. Omettendo al momento le posizioni reform circa il divorzio, ricordo, in via generale, che due ebrei (quelli halakhicamente tali) divorziati reform, rimangono tuttavia ebraicamente coniugati per l’ebraismo tradizionale e che, quindi, la donna resta vincolata a suo marito. Conseguentemente, vi sono moltissimi problemi circa lo status dei possibili figli successivamente avuti con un altro uomo, dopo il divorzio invalido. Questi bambini, una volta adulti, ad esempio, non sono coniugabili in alcun modo con altri ebrei in tutto l’ebraismo ortodosso, diasporico o israeliano.
Ma per quale motivo gli atti rabbinici -e nel caso specifico che solletica tanto gli ebrei italiani, ovvero quello delle conversioni- dei reform sono considerati nulli? È molto semplice, nella sua drammaticità macroscopica: l’ebraismo riformato non vincola, per vari motivi ideologico-teologici, gli ebrei all’osservanza di tutte le mitzvoth, così come la tradizione, dal Talmùd allo Shulchan ‘Aruch, le ha interpretate, rese applicabili e sviscerate. Da sempre, l’ebraismo vincola la conversione all’accettazione delle mitzvoth e della loro osservanza: laddove questa non sia richiesta e ritenuta vincolante non c’è conversione di sorta.
E voi davvero, in scienza e coscienza, volete esporre l’esiguo, attempato e debilitato ebraismo italiano a un bailamme interno di questo genere, con tutte queste inevitabili complicazioni e drammi familiari e comunitari, con tensioni che nemmeno negli Stati Uniti e in Israele, con ben altri numeri, si è riusciti a governare? È senso di responsabilità? Queste delicatissime e spinose faccende, in cui si tratta di sofferte spaccature, ad oggi insanate e insanabili del popolo di Israele, non sono affrontabili con la sciatteria, l’arroganza e l’impreparazione dilettantistica di ‘Rav Google’, sia che si intraprendano linee inclusive sia nel caso opposto. Occorre ponderazione, senso di realtà e tanto, tanto, tanto studio.
Sottolineo che la questione dell’osservanza delle mitzvoth e dell’universalismo è esattamente ciò divise l’ebraismo dal cristianesimo, l’archetipo di ogni riforma ebraica e l’unica davvero riuscita e in qualche modo originale. C’è di più. Recentemente Dana Kaplan, nell’introduzione del suo The New Reform Judaism: Challenges and Reflections, prefatto e postfatto dai Presidenti (quello in carica e quello emerito) del rabbinato reform, ci informa che il movimento reform è una grande, ospitale e inclusiva, ‘tenda teologica’, dove si è talmente liberali da sostenere che si possa religiosamente sia credere nel Dio di Israele, vivente e operante, sia in una concezione in cui Dio sia unicamente un costrutto o un postulato della ragione (!). Tutto questo è diverso da dire che il Popolo ebraico accoglie nel suo seno sia ebrei religiosi sia ebrei, per mille ragioni, agnostici o atei. È sostenere, invece, da una prospettiva rabbinica istituzionale, che sia valido tutto e il contrario di tutto.
E allora sì, lo dico molto chiaramente, sono molto più vicini all’ebraismo tradizionale il cristianesimo ortodosso o cattolico e, ancor più, l’Islam, dove almeno in Dio ci credono e molte mitzvòth sono osservate!
Conclusivamente, dato che tutta questa agitazione è stata avviata dall’ineffabile Guido Vitale e dalle sue considerazioni, rilevo alcune cose. Anzitutto, i rabbini, pur con indubbie mancanze e problemi, restano seguiti da moltissimi (talora persino molte centinaia e anche migliaia) followers sui social media, da facebook a youtube e twitter, ove fanno regolarmente lezione. Per converso, mi risulta che molti insigni rabbini italiani da anni abbiano cessato di contribuire a scrivere su Pagine Ebraiche per le scelte redazionali del direttore, inclusi i rabbini Arbib e Di Segni e il sottoscritto. Ma che dire del mio Maestro, il rabbino Laras, purtroppo agitato indebitamente oggi da taluni post mortem come un santino progressista, i cui interventi sul Corriere della Sera, su Il Foglio e sul Resto del Carlino non venivano mai debitamente segnalati con il giusto e doveroso rilievo, se non, per lo più, attraverso citazioni en passant? E che dire, ancora, del Convegno internazionale di Salerno, di intesa tra il Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia e la CEI, voluto e architettato da Rav Laras e da me presieduto, le cui notizie, pur date, sono state comunicate in sordina, con accenni sporadici e integrando, per esaltarle al meglio, le posizioni all’epoca avversarie? Questo è valso, in maniera diversa, ma analoga, per le posizioni di molti altri contributori del giornale nel corso di questi anni, a seconda, almeno ci è parso, delle esigenze e degli ammiccamenti tenuti all’uopo dal Direttore circa la linea editoriale. Ci vengano almeno risparmiate le sue prediche.
Pur con tutti i nostri limiti, i nostri errori, le nostre mancanze personali e, a volte, l’impossibilità di fornire una soluzione praticabile ai problemi delle persone, noi rabbini continuiamo a esserci e a far sentire la nostra voce, magari su organi diversi da quelli in cui pare ci vogliano confinare. Possiamo essere stati duri, e talvolta aver mancato nei tempi e nell’esatta forma, purtuttavia siamo esseri umani che comprendiamo il dolore, la sofferenza e le gioie delle persone e, dove possiamo, cerchiamo di aiutare, perché questo è il nostro compito.
*Rav David Sciunnach
Presidente del Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia
Rabbino Capo di Ancona e delle Marche
Rabbino Capo di Parma
Assistente del Rabbino Capo di Milano
** Una precisazione del Prof. Sergio Della Pergola: “Nell’odierno intervento di Rav David Sciunnach sul Bollettino online, è detto che in Italia nel 1945 vivevano 45,000 ebrei. Il dato e’ evidentemente erroneo. A causa dei diversi aspetti legati al periodo della Shoah (uccisioni, emigrazione, conversioni), il dato iniziale di 45,000 si era ridotto nell’immediato dopoguerra a 26,000. È invece esatta l’osservazione che gli attuali 23.000 ebrei iscritti sono molto meno di quelli che dovrebbero esserci in considerazione della notevole immigrazione ebraica che ha raggiunto l’Italia da moti paesi a partire dagli anni ’50”.
NdR: avendo linkato il commento di Rav Punturello, ci corre l’obbligo di segnalare che la parte relativa a Rav Toaff è stata corretta da Sergio Della Pergola QUI