di Gaia Piperno
Come pensare alla gioia della festa di Sukkot in un momento così difficile per Israele e per il mondo ebraico? A un anno dal 7 ottobre, una narrazione talmudica aiuta a sperare nella salvezza dai pericoli e nella gioia di una preghiera ascoltata
Uno dei nomi della festa di Sukkòt è Zemàn Simchatènu, il tempo della nostra gioia. La mitzvà della gioia è valida per tutte le feste, ma è prescritta in modo particolare nei versetti relativi alla festa di Sukkòt (Devarìm 16, 14). Dopo quanto è successo il 7 ottobre, è difficile pensare alla gioia della festa di Sukkòt. Da ebrea di origini romane non posso non associare all’evento nefasto altri due terribili momenti indelebili: il 16 ottobre del 1943 e l’attentato al Tempio di Roma del 1982, avvenuti durante i giorni di questa festa. Cercare nelle fonti può aiutare a comprendere il significato della gioia della festa di Sukkòt e a viverla anche in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo.
Nel trattato talmudico di Sukkà, dopo aver approfondito gli aspetti delle mitzwòt della sukkà e del lulàv, viene descritto in che modo avvenivano le celebrazioni quando esisteva il Santuario a Gerusalemme. Particolare attenzione viene data alla gioia che accompagnava la Simchàt Bet HaShoevà (la festa dell’attingimento dell’acqua). Il quinto capitolo prende il nome dalla prima parola Hechalìl, “Il flauto”, uno degli strumenti musicali che con le sue melodie accompagnava i festeggiamenti. Nel testo è descritta con dovizia di particolari la cerimonia festosa dell’attingimento dell’acqua dalla sorgente dello Shillòach, a cui seguiva una processione per portarla in libagione sull’altare. La processione era accompagnata dai leviti che stavano sui quindici gradini del Santuario, suonavano e cantavano i quindici Salmi che iniziano con le parole Shir hama’alòt (“Canto dei gradini” o “delle salite”, capitoli 120-134). La Mishnà arriva a stabilire che chi non ha mai visto la Simchàt bet haShoevà, non ha visto una gioia completa in tutta la sua vita.
In questo contesto, il Talmud riporta un’aggadà sull’origine dei “Canti dei gradini o delle salite” a nome di rabbì Yochanan (TB, Sukkà 53a). Questa aggadà allude a un grande pericolo per il mondo intero. È riportata in due versioni, la prima è più breve e concisa, la seconda è più lunga e complessa e, per alcuni aspetti, in contraddizione con la prima.
Tutto ha inizio da una domanda che rav Chisdà pone a uno dei maestri che riordinava gli insegnamenti delle aggadòt: in merito a che cosa il re David aveva composto i quindici Canti delle salite? Il maestro gli rispose che il re, nei preparativi per la costruzione del Santuario, scavò gli Shittìn, le misteriose cavità sottostanti al Santuario di Gerusalemme, che giungevano fino agli abissi della Terra, dove si trovano le acque primordiali, uno degli elementi più potenti della natura. Accadde allora che le acque degli abissi si sollevarono al punto che rischiarono di inondare il mondo. David, recitando i “Canti delle salite”, gli Shir hama’alòt, riuscì a farle calare.
A questa narrazione dell’origine dei quindici Salmi viene obiettato: Se è così, visto che le acque calarono, dovrebbero chiamarsi “Canti delle discese”, e non “delle salite!”.
Il maestro riordinatore delle aggadòt, sentita l’obiezione si rammentò allora che l’aggadà tramandata era diversa e ben più articolata. Secondo la seconda versione, quando David scavò gli Shittìn, le acque degli abissi si sollevarono e stavano per inondare il mondo. David allora chiese ai presenti se fosse permesso scrivere il Nome divino su un coccio per poi gettarlo in quelle acque, sapendo che questo gesto le avrebbe fermate, con il rischio però di provocare la cancellazione del Nome divino. Nessuno gli rispose. Allora David ribattè: “Chi sa la risposta e non dice nulla, che soffochi nel suo silenzio!”. Achitòfel, consigliere di David, pensò che se per mettere pace tra marito e moglie la Torà prevede che il Nome divino possa essere cancellato (il riferimento è al rituale della Sotà, la donna sospettata di adulterio, a cui venivano fatte bere delle acque amare in cui era stata immersa una pergamena su cui erano scritti dei versetti contenenti il Nome divino, che quindi veniva cancellato nelle acque – Bemidbar 5, 11-31), a maggior ragione deve poterlo essere per portare la pace al mondo intero! Disse allora Achitòfel al re: “È permesso!”.
David scrisse il Nome divino sul coccio, lo gettò negli abissi e le acque calarono di sedicimila cubiti. Ma il pericolo non era passato. Quelle acque sotterranee, infatti, avevano anche la funzione di inumidire i campi e renderli fertili, e la distanza che si era creata dalla superficie della Terra era eccessiva. Fu in quel momento che David recitò i quindici Canti dei gradini – o Canti della salita, che dir si voglia -, che fecero risalire le acque di quindicimila cubiti, mantenendole a una distanza di sicurezza di mille cubiti dalla superficie terrestre.
Questa aggadà, per i temi che tratta (gli abissi, le acque inferiori che risalgono ai tempi della Creazione del mondo, le fondamenta del Santuario, il rischio della distruzione del mondo e la sua salvaguardia, il potere della preghiera dell’uomo) si presta a essere interpretata su più livelli. Fermandoci a una lettura piana del testo, emergono alcuni spunti interessanti. In un primo momento, il re David cerca una soluzione “halachika” condivisa: lui ha una soluzione per far calare le acque, ma teme di incorrere nel divieto di cancellare il Nome divino. In un momento così critico per le sorti del mondo, il re chiede ai presenti un consiglio e non accetta il silenzio di chi sa e non parla, arrivando a maledire chi conosce la risposta alla sua domanda ma tace. A quel punto, l’aggadà ci fa entrare nei pensieri di Achitòfel, personaggio controverso ma pur sempre consigliere del re, che fa un ragionamento a fortiori: se è possibile cancellare il Nome divino per mettere pace tra moglie e marito (Shalòm bait, un principio fondamentale del pensiero ebraico), tanto più sarà lecito farlo per ottenere la pace su tutta la Terra. Achitòfel si fa avanti e dà a David la risposta che cercava. Il consiglio giusto al momento giusto ha il potere di salvare il mondo. Non bisogna rimanere in silenzio.
David getta negli abissi il coccio con su scritto il Nome divino, le acque calano, ma l’equilibrio è ancora instabile: quelle stesse acque minacciose e pericolose hanno anche un ruolo essenziale nel rendere la terra umida e fertile. David ne riconosce gli aspetti positivi oltre che distruttivi, e solo attraverso la recitazione degli Shir hama’alòt riesce a ritrovare quell’equilibrio che permette di riportare il mondo al sicuro e salvarlo dalla catastrofe: quale gioia può essere più grande del successo di una preghiera?
David era un combattente. Aveva conquistato Gerusalemme, ma non poteva costruire il Santuario per le troppe guerre e il troppo sangue versato. Questo non gli impedì però di fare i grandi preparativi e le “infrastrutture” che permisero a suo figlio Shelomò-Salomone di costruire il Santuario e regnare in pace. Questi preparativi comprendono i quindici Shir hama’alòt, che composti in un momento di pericolo per il mondo intero, diventarono parte integrante del momento più gioioso della festa più gioiosa che la tradizione ebraica conosca. L’aggadà sull’origine degli Shir haMa’alòt ci invita a rileggerli e comprenderli da una diversa prospettiva, facendoci assaporare la gioia di una preghiera ascoltata e della salvezza del mondo dal pericolo.
Sukkot in sinagoga, di Leopold Pilichowski (1869-1933).