di Rav Roberto Della Rocca
Uno dei motivi per cui non possiamo esimerci dal tenere i sogni in notevole considerazione e di ritenerli un aspetto importante della profezia, è certo dovuto al rilievo che ad essi viene dato nella Bibbia. Nell’intendere i sogni come veicolo della parola divina, la tradizione rabbinica afferma che il sogno è un surrogato della rivelazione, dato che l’informazione che arriva dal cielo attraverso il sogno ha una qualche piccola affinità con la profezia.
In un passo di Bereshit Rabbà, 52; 5, è detto, però, che l’Eterno sceglie la via del sogno nel rivelarsi ai non ebrei, come è il caso, nella Bibbia, di Balaam, di Labano, di Avimelekh, mentre per rivelarsi a Israele sceglie la piena luce della profezia. Si capisce come un’affermazione del genere possa avere tolto molto valore al sogno, nonostante il peso della tradizione.
Un esempio originale di come accostarsi al significato del sogno, ci è
fornito dalla letteratura talmudica che costituisce il punto di partenza
per le teorie di tutti gli altri autori successivi. Una gran parte delle teorie riportate nelle pagine 55 a – 57 b, del trattato talmudico di Berakhòt sembrano derivate da tradizioni popolari. A queste bisogna aggiungere i sistemi di propiziazione del sogno, quali la preghiera e il digiuno, come pure i sistemi per annullare i sogni cattivi e gli incubi è raccontare il sogno a tre persone che lo interpretino positivamente. Ma questa parte, che abbiamo chiamato popolare, non è la sola, anche se è la più vasta; ne esiste un’altra che potremmo chiamare più propriamente teorica e che ha una sua unità di spazio, anche se la trattazione presenta il solito carattere occasionale e associativo. Si tratta della sezione che va dalla fine di pagina 55 b a tutta la pagina 56 a; in essa troviamo le seguenti affermazioni: la prima è di Shemuel secondo il quale il sogno, sia bello che brutto, è sempre vano.
Rabbà attenua il giudizio troppo drastico dicendo che l’uno è dovuto ad un angelo l’altro ad un demone. Segue poi la citazione di una frase che doveva essere un proverbio corrente, secondo cui i “sogni seguono la bocca”. La frase è interpretata nel senso che il significato del sogno dipende dall’interpretazione che se ne dà; si narra infatti di Rabbi Benaa che, avendo avuto un sogno, interrogò tutti i 24 interpreti che c’erano a Gerusalemme al tempo suo e, avendo avuto da ciascuno un’interpretazione diversa, nondimeno tutte si avverarono. Più positivo sul valore del sogno è l’episodio che segue, in cui Rabbi Yochanan dice: “uno che si alza la mattina e gli viene in mente un versetto biblico, ciò è da considerarsi come una piccola profezia”, dopodiché annuncia alcuni tipi di sogno veridici. Nella pagina 57 b si afferma che il sogno è un sessantesimo della profezia, come il sonno, lo shabbat, il miele e il fuoco sono rispettivamente un sessantesimo della morte, del mondo futuro, della manna e del gheinnom.
Sempre nel passo di Berakhòt ci imbattiamo in due episodi che parlano molto chiaramente del valore del sogno. Il primo comprende un detto di rabbi Yochanàn secondo cui si sogna semplicemente ciò in cui la mente è stata impegnata durante il giorno (il famoso residuo mnestico di Freud), il secondo è un lungo aneddoto relativo a Bar Hadayà che dava interpretazioni positive a chi lo pagava e negative a chi non gli offriva nulla, anche quando si trattava dello stesso sogno. Nel libro dei sogni che egli possedeva e che un giorno cadutogli di mano, viene aperto e letto da una vittima delle sue non disinteressate interpretazioni, era contenuta infatti la già menzionata frase che “i sogni seguono la bocca”, frase che trova conferma nell’altra, attribuita a Rav Hisdà, secondo cui “un sogno non interpretato è come una lettera non letta” (Berakhot , 55 a ).
La parashà di Vajetzè, che leggiamo in queste settimane, si apre con un sogno molto particolare per il suo contenuto simbolico e che viene elaborato dal nostro patriarca Giacobbe con una nuova presa di coscienza al momento del risveglio.
Dopo che riesce a mettere assieme 12 pietre che si fondono in un’unica pietra, Giacobbe, con il sogno della scala, sta per diventare la storia infinita dei figli che verranno e che non esistono ancora. In questa cornice le pietre diventano un cuscino-letto, luogo del concepimento del popolo ebraico. Israele, infatti, è l’identità integrata di Giacobbe e insieme la sua diversificazione – unione dei suoi dodici figli-tribù, 12 modi diversi di essere ebrei.
Una identità che può essere sintetizzata in una scala che unisce cielo e terra con degli angeli che volano in un andirivieni, come in una dialettica inesauribile, un ponte creativo tra cielo e terra. Nella Torà c’è la scala di Giacobbe, ma c’è anche la scala della torre di Babele che rappresenta invece l’omologazione e la confusione, la non identità. La scommessa più difficile è quella di riuscire a riconoscere e a distinguere queste due scale.