di Nathan Greppi
A un anno dai massacri e i rapimenti del 7 ottobre, mentre il mondo circostante sembra aver dimenticato in fretta, per il mondo ebraico invece le cicatrici sono ancora fresche. Ma è stando uniti e confrontandosi a vicenda che si può alleviare il dolore. Per questo, martedì 8 ottobre sono venuti a parlare presso la Sala Segre della Scuola Ebraica di Milano Liran Berman, i cui fratelli Ziv e Gali sono tuttora tenuti in ostaggio da Hamas, e Ariel Malka, comandante dell’IDF che il 7 ottobre fu tra coloro che scesero in campo contro l’avanzata dei terroristi. L’evento è stato organizzato dalle associazioni Adei Wizo, UGEI, Agenzia Ebraica per Israele e F205J.
Dopo i saluti istituzionali tra gli altri di Walker Meghnagi, presidente della Comunità Ebraica di Milano, e di Sylvia Sabbadini, presidente dell’Adei Wizo Milano, è stato proiettato il trailer del documentario #Nova, realizzato attraverso video girati quel giorno sia dai cellulari dei ragazzi che si trovavano al Nova Music Festival sia dalle bodycam degli stessi terroristi. Inoltre, a metà evento ha parlato il presidente UGEI Luca Spizzichino, il quale ha fatto un resoconto delle attività che i giovani ebrei italiani portano avanti con le manifestazioni per la liberazione degli ostaggi e i sondaggi condotti per capire come viene vissuto il clima post-7 ottobre in Italia.
Liran Berman: liberare i miei fratelli è la mia missione
Berman, il primo a intervenire, ha raccontato che la sua famiglia è del Kibbutz Kfar Aza, che solo lui aveva già lasciato prima ancora del 7 ottobre. “Io e i miei bambini avremmo dovuto recarci a Kfar Aza il 7 ottobre, per il festival musicale. Ma siccome mia moglie aveva il Covid non siamo andati. Da allora, uno dei miei incubi più ricorrenti è di ritrovarmi con i miei figli nella camera blindata il 7 ottobre”.
Ziv e Gali, ha spiegato, lavoravano come tecnici delle luci nell’industria musicale, e con la loro personalità “portavano la luce ovunque andassero. Non solo con il loro lavoro, ma anche con la loro personalità. Il loro sogno è sempre stato di andare in Europa per vedere giocare dal vivo il Liverpool, la loro squadra del cuore, e quando torneranno ci andremo tutti insieme”.
Dopo il 7 ottobre, ha detto, il suo lavoro “è prendermi cura di mia madre e fare di tutto per liberare i miei fratelli. Il 7 ottobre è un giorno che non dimenticherò mai. È passato un anno, ma rivivo quel giorno ogni volta che mi sveglio”. Quel giorno, all’inizio non ha prestato troppa attenzione agli allarmi, essendoci ormai abituato. “Ma verso le 7:15, ho visto le prime notizie dei terroristi arrivati fino a Sderot”, la più vicina a Kfar Aza. Allora Liran ha capito che era una situazione mai successa prima, e ha chiamato subito la famiglia per chiedere loro se stessero bene, al che loro gli hanno risposto che erano nella stanza blindata e che erano poco armati, mentre intorno a loro sentivano urlare in arabo. “Verso le 9:30, ho perso la connessione con i miei fratelli minori. Quella è stata l’ultima volta che ci ho parlato”.
Dopo i massacri e i rapimenti, quando ancora molti corpi andavano identificati, ci sono voluti circa undici giorni prima che due soldati dell’IDF venissero a comunicargli che i suoi fratelli erano stati rapiti e portati a Gaza. Durante quegli undici giorni, “sono andato ad una dozzina di funerali di persone con cui sono cresciuto assieme, che conoscevo da tutta la vita, a volta con un solo funerale per un’intera famiglia. Durante quegli undici giorni, non ho fatto che chiedermi se i miei fratelli erano ancora vivi, e da quando ho scoperto che lo erano, la mia vita è dedicata alla loro liberazione”. Motivo per cui nell’ultimo anno ha incontrato assieme ad una delegazione di altri parenti degli ostaggi numerosi esponenti delle principali organizzazioni internazionali, per sensibilizzarli sulla questione.
Prima del 7 ottobre, i kibbutz al confine con Gaza erano noti per ospitare numerosi attivisti pacifisti, che credevano nella pace con i palestinesi e per anni hanno portato aiuti umanitari a Gaza. Interpellato da Mosaico, Berman ha spiegato a tal proposito che “molte cose sono cambiate dopo il 7 ottobre, e sentiamo che l’aiuto che avevamo portato a Gaza ci è esploso in faccia. Abbiamo capito che molti abitanti di Gaza non ci vogliono in questa terra, e vogliono che tutta Israele sia come Gaza”.
In merito al futuro, sostiene che “non potrà essere peggiore di quello che è già successo. Abbiamo capito che ciò che è stato prima del 7 ottobre non potrà tornare indietro, ma credo anche che le classi dirigenti di entrambe le parti debbano cambiare affinché ci possa essere per entrambi i popoli la speranza di un futuro migliore”.
Ariel Malka, una voce dal fronte
Per capire come viene vissuta la situazione post-7 ottobre dai soldati che da quel giorno sono dovuti intervenire e hanno visto morire compagni, amici e parenti, Ariel Malka (nella foto in alto) ha condiviso la sua esperienza personale, mostrando sullo schermo anche foto e slide.
Dopo aver raccontato il suo percorso come ufficiale, ha spiegato che proprio il 3 ottobre 2023 finì il suo addestramento, per poi uscire in licenza con i compagni per festeggiare. Il 7 ottobre, quando avrebbero dovuto vedersi per festeggiare, “mi alzo la mattina, e alle 7 inizio a vedere le immagini delle macchine dei terroristi entrati a Sderot, e in quel momento capisco che abbiamo una lotta contro il tempo. Non aspetto neanche gli ordini dall’alto, mando messaggi a tutti i miei compagni e li avviso di preparare le armi per andare a sud per aiutare chi ne ha bisogno”.
Una parte dei soldati si reca in elicottero verso il sud, mentre lui e le reclute più giovani scendono verso sud, capendo in breve tempo che alcuni loro amici sono già stati uccisi. Nel Kibbutz Re’im, si mettono a difendere l’Hotel Erez, impedendo che i terroristi riescano ad entrare. Ha raccontato che suoi luoghi dei massacri, “abbiamo visto tanti cadaveri a terra, e non lo dimenticherò mai. Era come un film dell’orrore, ma molto peggio”.
Quando sono entrati a Gaza, “ci siamo messi tutti in cerchio e ci siamo abbracciati per darci coraggio prima di entrare in battaglia”. Hanno combattuto per settimane, per giungere ad un ospedale per dimostrare come Hamas usi gli ospedali di Gaza come depositi di armi, incurante di mettere a rischio la popolazione civile. In seguito, si sono recati verso una postazione di Hamas per conquistarla, anche perché lì c’erano gli ingressi per i tunnel, dei quali ha mostrato le foto sullo schermo. Uno di questi tunnel, dove hanno scavato, era lungo cinque chilometri e arrivava fin sotto Israele.
“La terza notte, il mio comandante mi chiama per parlarmi”, ha spiegato Malka. “Mi fa sedere, e mi annuncia la cosa peggiore di sempre: mi dice che mio fratello gemello è stato ucciso oggi, a sud di Gaza. Allora sono tornato dai miei soldati, per dire loro che l’indomani sarei andato al funerale del mio gemello”. A quel punto mostra una foto di un suo commilitone, Amit Buntzel, che lo ha abbracciato e rassicurato dicendo che lo avrebbe sostituito a capo della squadra.
Proprio al funerale del fratello, viene da lui il padre di Amit, e quando gli chiede se stesse bene, Ariel gli rispose di sì e che lo aveva sostituito al comando. Di ritorno dal funerale, il padre di Amit trova a casa dei soldati che gli annunciano la morte del figlio in battaglia.
Verso la fine, Ariel Malka ha mostrato un video di lui e dei suoi compagni che cantano insieme e ricordano coloro che non ci sono più, nella consapevolezza che in questa situazione non possono farsi prendere dall’angoscia, ma solo andare avanti.