di Paolo Castellano
Alla Giornata europea della Cultura ebraica, Aaron Fait, agronomo dell’università di Beer Sheva, parlerà dell’innovazione israeliana che raccoglie l’attualissima sfida alla desertificazione e traccia una linea guida per la salvaguardia del pianeta. Lo abbiamo intervistato
Che l’acqua sia una risorsa preziosa per il Medio Oriente lo si comprende benissimo anche attraverso la letteratura israeliana. Quattordici anni fa lo scrittore Assaf Gavron nel suo libro Idromania (pubblicato in Italia da Giuntina) ha creato una storia in cui Israele e il mondo sono in preda a una irreversibile siccità dove le multinazionali hanno il completo controllo delle sorgenti e della distribuzione dell’acqua fresca. Per Gavron questa emergenza ambientale può essere mitigata soltanto dall’ingegno dell’uomo, capace di sfruttare la sua intelligenza per creare nuove tecnologie in grado di dissetare un pianeta allo stremo.
Uscendo dalla fiction e tornando alla realtà di oggi, non soltanto israeliana ma anche italiana, a inizio settembre il Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione europea ha dichiarato che la stagione estiva del 2022 è stata la più siccitosa dal 1450. La siccità ha colpito duramente l’Italia causando 6 miliardi di danni all’agricoltura nazionale, a cui si aggiungono gli effetti catastrofici legati alla mancanza d’acqua, alla diffusione degli incendi, allo scioglimento dei ghiacciai. Se c’è un Paese al mondo che sin dalla sua fondazione ha dovuto affrontare e adattarsi a questi fenomeni è sicuramente lo Stato di Israele, che negli ultimi anni ha persino iniziato a desalinizzare il mare per produrre acqua potabile.
Per questa ragione Mosaico ha deciso di intervistare Aaron Fait, biochimico e docente alla Ben Gurion University del Negev (che di questi temi parlerà alla Giornata europea della Cultura ebraica a Milano) per comprendere quali siano le attuali politiche israeliane nella gestione delle risorse idriche.
Quali sono gli strumenti che Israele ha messo in campo per limitare lo spreco dell’acqua?
Rispetto all’Italia, in Israele si investe molto nelle campagne di sensibilizzazione per rimarcare il valore dell’acqua. Si comincia con i più giovani negli asili e nelle scuole; si insegna loro a evitare sprechi quando ci si fa la doccia e ci si lava i denti. Questa consapevolezza ha la stessa importanza delle ricerche universitarie e dell’invenzione di nuove tecnologie. Per esempio, un’altra differenza tra Italia e Israele sulla gestione idrica è il controllo delle tubature. Se un tubo israeliano ha un problema l’amministrazione municipale o privata lo ripara subito. Tale coscienza permette un risparmio enorme di acqua potabile su tutto il territorio nazionale di Israele.
Inoltre, mi ricordo che durante i difficili anni di siccità, dal 2005 al 2009, per le strade erano comparsi dei cartelloni pubblicitari in cui si utilizzava il fotomontaggio di una modella che si sgretolava con la frase “Israele si asciuga”. In quel periodo le campagne di sensibilizzazione erano davvero martellanti e avevano come obiettivo quello di stimolare condotte responsabili per affrontare una situazione già esistente. Grazie a quegli sforzi, costati anni e anni di lavoro, oggi in Israele non si spreca quasi più acqua e questo tema è molto sentito sul piano sociale.
Purtroppo, al contrario di Israele mi sembra che l’Italia non stia adottando efficaci precauzioni su questo problema. A livello nazionale, la rete idrica italiana ha una percentuale media di perdita del 39%, 39 litri d’acqua ogni 100 litri immessi nei tubi. Sicuramente si dovrebbe incominciare subito a migliorare queste infrastrutture idriche.
In concreto quali sono le politiche dell’attuale amministrazione israeliana riguardo la gestione delle risorse idriche?
Per molti anni in Israele si è discusso sulla politica riguardante la desalinizzazione del mare per produrre acqua potabile. Questa soluzione è abbastanza recente ed è stata impiegata per attingere risorse idriche dal Lago di Tiberiade e da altri bacini acquiferi della costa e della zona montuosa che attraversa il Nord e Sud di Gerusalemme. A parte ciò, Israele è il primo Stato al mondo nel riutilizzo delle acque reflue. Certamente, lo si fa anche in Europa – la Spagna è molto migliorata su questo tema – ma non a livello dello Stato ebraico. Israele riutilizza l’86% delle sue acque di scarto domestiche e le ricicla per uso agricolo. Tempo fa, l’agricoltura israeliana si basava su acquiferi, acqua piovana e acqua dolce ma oggi non è più così. Questo cambio di tendenza ha scongiurato ulteriori competizioni e conflitti sullo sfruttamento delle risorse idriche: nel 1967 c’è stata una guerra per l’utilizzo delle sorgenti del Giordano tra Libano e Israele.
Tuttavia, in agricoltura si effettua un uso dell’acqua a vari livelli. La si può desalinizzare quasi completamente – il procedimento è costoso e lo si fa per la coltivazione della vite – oppure lasciare una certa quantità di salinità nel liquido per le coltivazioni che la tollerano. In passato, la desalinizzazione è stata molto criticata ma poi si è diffusa grazie al mercato privato trainato da compagnie francesi del settore. La desalinizzazione del mare è sicuramente una delle tecnologie che saranno più sfruttate in futuro. Fortunatamente abbiamo delle alternative più sostenibili economicamente. Come è noto, l’agricoltura è in crisi in tutto il mondo e gli agricoltori rischiano di indebitarsi se il costo dell’acqua dovesse aumentare vertiginosamente. Certamente, sono convinto che con il passare del tempo la tecnologia di desalinizzazione diventerà più abbordabile da un punto di vista economico: ci saranno più impianti e probabilmente più competizione.
L’intervista integrale ad Aaron Fait sarà sul Bet Magazine di Ottobre