di Sofia Tranchina
Il potere dello sguardo di produrre degli effetti sulla persona osservata: questo l’argomento dell’ultima lezione Kesher dell’anno, svolta da Alfonso Sassun. Infatti, anche nell’ebraismo esistono alcune pratiche raffinate relative al malocchio, che hanno origine in niente meno che la Torah.
Nei Pirkè Avot (massime dei padri) si ritrovano diversi riferimenti a quello che è l’ayin arà (l’occhio cattivo): uno sguardo di invidia e di avidità, uno sguardo che reca distruzione e danni a ciò che è esposto alla vista.
In P.A. 5, 13, si parla infatti di due atteggiamenti avversi alla tzedakah (beneficenza) vera e propria, che si sviluppano intorno al concetto di ‘sguardo cattivo’: c’è chi vuole essere l’unica persona riconosciuta come benefattrice, che guarda con mal occhio (invidia) ciò che fanno gli altri, e c’è chi invece – sperando che siano gli altri a fare beneficenza – non vuole offrire le proprie cose, perché guarda con mal occhio (avidità) ciò che ha.
L’ayin ara si contrappone poi all’ayin yafa, il buon occhio. E così in Mishna Terumot 4, 3 è indicata come terumah (offerta) gradita quella che è data con ayin yafa, ovvero con zelo.
Sassun ha quindi portato numerosi esempi in cui si parla di malocchio nei testi religiosi, e anche di antidoti alle maledizioni.
Ad esempio, Rashì ha spiegato nei suoi commenti che in Genesi 42, 1, quando in Egitto arrivò la carestia e Yaakov mandò i propri figli (ad eccezione di Binyamìn) a chiedere provviste da Yossèf, e disse loro «perché vi fate notare?», li stava esortando a non mostrare di avere ancora del cibo, per non suscitare l’invidia e il risentimento delle famiglie di Yishma’èl e di Essàv. Inoltre, in Bereshìt Rabbà 91, 6 è spiegato che i dieci figli entrarono in Egitto ognuno da una porta diversa per evitare il malocchio, perché la gente vedendoli avrebbe potuto essere invidiosa nel vedere che un uomo è stato benedetto con dieci figli sani.
La più grande assicurazione contro il malocchio è infatti quella di non mettere in mostra e di non esporre all’occhio il proprio benessere. Questo ci viene suggerito anche in Taanit 8b: non c’è beracha (benedizione) se non in una cosa che non è visibile all’occhio.
Le lettere di beracha (בְּרָכָ) corrispondono ai valori numerici di 2, 20, e 200: fare una benedizione è quindi aspettarsi una moltiplicazione nelle proprie cose. E siccome non si può pretendere un miracolo aperto né una manifestazione esplicita, non è bene misurare il prodotto del grano prima di recitare la benedizione, cosa che renderebbe vana la stessa.
Ed è per questo motivo che è vietato a chiunque trattenersi troppo a lungo nei pressi dei campi dei vicini nel periodo in cui il grano è in spiga: perché ammirando le coltivazioni altrui si rischia di gettare, anche involontariamente, il malocchio sul raccolto.
Siccome anche contare le persone porta malocchio (e infatti nella Torah il popolo veniva contato portando un mezzo siclo ciascuno), ad oggi per verificare se ci sono le dieci persone per il minian in un luogo, si assegna a ciascuna una parola della benedizione Hamotzi Lehem Min Haaretz (composta di dieci parole).
Riti propiziatori
Se esiste il malocchio, inteso come una convergenza di sciagure gettate da uno sguardo invidioso, devono esistere anche delle protezioni dal malocchio. Tra queste, è assai usato il simbolo del pesce, che ha origine nella benedizione che Yaakov fece ai figli.
«Si moltiplichino in mezzo alla terra i giovani», disse il patriarca. Moltiplicare, veyidgu, è collegato etimologicamente alla parola “pesce”, dag.
Secondo altri invece l’utilizzo del pesce ha origine dal fatto che l’acqua che copre i pesci li proteggerebbe dal malocchio.
Di Rosh Hashana e di Kippur invece si legge 7 volte per diritto e 7 volte per rovescio un versetto propiziatorio da Genesi 32, 2: «Hashem era con Yossef, ed egli era un uomo di successo e si trovava nella casa del suo padrone egiziano».
Ancora, si usano il 5 e i suoi multipli come numeri di protezione, perché secondo i Maestri il malocchio è qualcosa che colpisce solo la parte materiale della vita e non quella spirituale. In Bereshit, spiega Sassun, i giorni in cui sono state create le cose materiali sono 5, mentre il quarto giorno è stata creata una luce che è in realtà spirituale, e il settimo giorno è stato creato lo Shabbat. Quindi 5 sono i giorni della materialità da proteggere dal malocchio, e 2 quelli della spiritualità.
Siccome la quinta lettera dell’alfabeto ebraico è la E, alcuni usano intercalare con un lungo «eeeee…» quando si parla di cose che potrebbero attirare il malocchio.
In Tsofot (commenti al Talmud) si dice che è permesso di Shabbat pronunciare un incantesimo per allontanare il malocchio, ma che non è permesso far uscire il cavallo con una coda di volpe o una stoffa scarlatta tra gli occhi, cosa che invece si può fare in settimana per proteggere il bestiame dal malocchio.
A Tripoli, infine, è usanza gettare dell’acqua dietro a chi parte per un viaggio, per simboleggiare l’onda che va avanti e torna indietro.
Tuttavia, è bene ricordare che sebbene alcuni riti abbiano origini molto antiche che si ritrovino legittimati anche nei testi di riferimento alla religione ebraica, non bisogna lasciarsi andare alle superstizioni. In Vayikra 19, 26 è scritto un esplicito ammonimento: «Non cercate di interpretare i presagi e non agite in base ai tempi favorevoli».