di Ilaria Myr
La lingua ebraica tra antichità e modernità: è su questo aspetto che si sono incentrati gli interventi dell’incontro intitolato “Le parole ebraiche nell’arte, nella letteratura, nella Bibbia”, nell’ambito della Giornata della cultura ebraica, che ha visto la partecipazione di professionisti dell’ambito ebraico e linguistico, introdotti da Jean Blanchaert, gallerista, illustratore, maestro calligrafo.
«In ebraico esistono due diversi modi di dire parole: la biblica “Davar” דבר e la più moderna “milà” מילה– ha spiegato Sara Ferrari, traduttrice e professore di lingua e cultura ebraica all’Università degli Studi di Milano -. La prima, antica, ha una maggiore rilevanza in quanto è la parola di D-o e contiene in sé un’accezione molto concreta. E tutt’oggi nella letteratura israeliana molti sono gli esempi di autori contemporanei laici che fanno proprio il termine Davar». Ma in generale l’utilizzo di termini antichi di origine biblica è ancora oggi molto frequente: a sottolineare, spiega Ferrari, quanto «inserire un termine antico in un contesto contemporaneo serva ad attivare emozioni e situazioni che quella parola ha nella scrittura biblica, dando a tutto il testo una luce diversa».
Un maestro di ciò è il poeta Yehuda Amichai, un ex religioso che nei suoi lavori ripropone il trema della ricerca della divinità, utilizzando l’espressione arcaica “aiecha” (dove sei), che è la stessa usata da D-o nella Genesi quando si rivolge ad Adamo nell’Eden dopo che questi ha mangiato il frutto del peccato. Ma anche nella prosa non mancano gli esempi: «il premio nobel per la letteratura Shmuel Yosef Agnon (l’unico israeliano a essere insignito di questo riconoscimento) pesca molto dalla Bibbia, dal Talmud e dai Midrashim – continua la docente – mentre Zeruya Shalev nel suo ultimo romanzo Dolore ricorre alla parola “bor” בור, che significa pozzo, fossa, e che rimanda alla fossa in cui ci getta il dolore».
Davanti un tale intreccio di antico e moderno, come può un traduttore non tradire la parola e ciò a cui essa rimanda? Perché se da un lato la traduzione rende possibile la lettura dei testi fuori dal Paese di origine, dall’altro è indubbio che essa indebolisca le parole e il loro significato. Per chi si occupa di traduzioni dall’ebraico, però, non c’è che un’unica strada secondo Sara Ferrari: «Prendere coscienza che si ha a che fare con una letteratura unica, che include le rocce del Sinai e i grattacieli di Tel Aviv».
Dell’antichità della lingua ebraica ha parlato poi il filologo Giulio Busi, professore di cultura ebraica alla Freie Universität di Berlino, definendola «un grande fiume che nel corso dei millenni ha trascinato con sé materiali diversi, come parole sumeriche e altre legate al mondo antico: “bait” בית, ad esempio, era la tenda nomade, mentre “masà”, il viaggio, deriva dall’azione di spostare i picchetti delle tende».
L’unica cultura europea, secondo Busi, che ha una profondità temporale simile a quella ebraica è quella italiana, che può vantare grandi autori – Dante in Primis – di quasi un secolo fa che scrivevano in una lingua molto simile a quella moderna.
Un’altra caratteristica fondamentale è che in essa la regina non è la parola, ma la lettera. «La cultura ebraica ha mantenuto tracce della sapienza alfabetica tipica delle antiche civiltà semitiche – continua Busi -. E nella mistica ogni lettera perde il suo significato concreto e diventa libera. La parola serve dunque per salire al divino».
Ma la lingua ebraica è soprattutto una lingua polisemica, come è emerso dall’intervento di Rav Roberto Della Rocca, direttore Area Formazione e Cultura Ucei. «Si pensi alla parola “erev” ערב che significa “sera”, ma anche “miscuglio“: questo perché la mescolanza dell’ultima luce del giorno con la prima della sera crea confusione nel caso della nascita di un figlio, perché non sia da quando calcolare il giorno e diventa difficile calcolare l’ottavo giorno per la circoncisione– ha spiegato -. Ma da questa radice deriva anche la parola “corresponsabilità”, in quanto nella confusione bisogna essere responsabili anche per gli altri».
Questo ragionamento è ancora più evidente nel caso dei due termini con cui si indica “parola” in ebraico, menzionati all’inizio da Sara Ferrari. «Davar דבר si ritrova all’interno della parola midbar מדבר, che significa “deserto”, dove fu data la Torà agli ebrei – ha continuato Della Rocca -. Il deserto è il luogo del silenzio a significare come per potere ascoltare dobbiamo prima di tutto avere dentro di noi il silenzio, il deserto». Allo stesso modo anche “milà” מילה si ricollega alla sfera del silenzio. «la milà è infatti per gli ebrei la circoncisione dei maschi, ma utilizzarla per indicare la parola significa volere in qualche modo “tagliare” la parola per ascoltare un po’ di silenzio».
Interessante poi il racconto talmudico sulle lettere, ognuna delle quali andò da D-o a chiedergli di essere la prima nella Torà. «Non venne scelta la prima lettera dell’alfabeto, la Aleph, che aveva più argomentazioni, ma la Bet ב con cui inizia la parola בראשית: una lettera aperta verso il testo, che indica l’atteggiamento del popolo ebraico che guarda avanti». Mentre l’ultima parola della Torà è ישראל . «E dal momento che l’ultima lettera è la lamed, ל, ecco che mettendo insieme la prima lettera della Torà con l’ultima viene fuori la parola “lev” (לב) “cuore”, perché la Torà va letta con il cuore».