di Francesco Paolo La Bionda
Benny Morris è considerato uno dei più influenti rappresentanti della scuola dei “Nuovi storici” israeliani, che a partire dagli anni Ottanta hanno rimesso in discussione alcune visioni tradizionali dei conflitti arabo-israeliani, con tesi molto dibattute che gli hanno portato sia critiche sia apprezzamenti da entrambi gli schieramenti.
Morris sarà a Milano il 18 settembre prossimo per la XXIII edizione della Giornata Europa della Cultura Ebraica, che si terrà presso la Sinagoga Centrale di via Guastalla. Alle 15, intervistato da Niram Ferretti, parlerà del passato, presente e futuro di Israele.
Lei e altri storici israeliani, categorizzati come “nuovi storici”, avete offerto una ricostruzione diversa del passato del vostro paese, in particolare riguardo alla sua fondazione. Le vostre tesi sono state sia accolte sia criticate: a che punto è oggi il dibattito storico su questo tema?
Quando io e altri storici abbiamo scritto e pubblicato le nostre revisioni storiche negli anni Ottanta e Novanta c’è stato un dibattito effettivamente molto acceso, in particolare riguardo alle nostre tesi riguardo alla guerra del 1948 tra Israele e gli stati arabi. Da allora, penso che molte delle nostre conclusioni, in particolare le mie sulla genesi del problema dei rifugiati palestinesi, siano state accettate dal mondo accademico, incluse alcune persone che inizialmente le avevano contrastate.
Oggi le nostre tesi vengono insegnate anche nelle scuole, in particolare nei corsi universitari. All’interno del ministero dell’Educazione israeliano però negli ultimi vent’anni i titolari del dicastero, tutti di destra, hanno cercato di respingere le nostre nuove interpretazioni storiche a favore di quelle precedenti.
Riguardo al problema dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno è diventato oggi uno dei nodi più spinosi nelle relazioni tra Israele e i palestinesi. Quanto pesa oggi sulla possibilità di trovare una soluzione permanente al conflitto?
Il problema dei rifugiati esiste ormai da oltre settant’anni e il diritto al ritorno è la questione probabilmente più importante per i palestinesi, che la considerano una conditio sine qua non per il raggiungimento di un qualsiasi nuovo accordo, rifiutando anche l’ipotesi di un risarcimento come alternativa. Il problema però è che i 700.000 rifugiati del 1948 oggi sono diventati, tramite figli e nipoti, oltre 5 milioni, e se rientrassero in Israele, lo trasformerebbero istantaneamente in un paese a maggioranza araba. Questa è la ragione per cui tutti i governi israeliani si sono sempre opposti a questa eventualità.
Secondo lei, è necessario che israeliani e palestinesi elaborino una versione condivisa della storia per arrivare alla pace o è possibile ottenere questo risultato anche conservando letture diverse degli eventi?
Credo che in realtà il maggior ostacolo a una possibile pace sia il rifiuto dei palestinesi di accettare la legittimità del sionismo e di Israele. Anche prima del 1948, la leadership palestinese, che allora aveva ancora un’identità solamente araba, aveva rifiutato categoricamente che potesse esserci una sovranità ebraica su qualsiasi parte della regione palestinese. E questa posizione si è conservata fino a oggi: Hamas lo dichiara apertamente, Fatah invece in modo più sfumato, ma entrambi continuano a ritenere illegittima la presenza ebraica in Palestina.
Le rivolte degli arabi israeliani lo scorso anno, dopo decenni di apparente pacificazione, hanno rivelato tensioni superiori a quello che si credeva. Che cosa è cambiato?
Dopo il conflitto del 1948, i palestinesi rimasti in Israele erano una minoranza sconfitta. La loro leadership era quasi tutta fuggita all’estero e a rimanere erano stati soprattutto contadini poco istruiti. Hanno accettato la sovranità israeliana perché non avevano alternative. Oggi i giovani sono maggiormente affiliati al nazionalismo palestinese e sanno che la natura democratica di Israele pone un limite alla sua capacità repressiva. Le rivolte dello scorso anno rivelano un grosso problema, che non credo migliorerà: la presenza di una minoranza all’interno dello Stato che non nutre sentimenti di lealtà verso lo stesso.
Mentre nei suoi primi trent’anni Israele ha dovuto combattere contro paesi arabi, oggi il suo avversario principale è l’Iran, di cultura persiana. Al contrario, con gli Accordi di Abramo diversi paesi arabi si sono riavvicinati allo Stato ebraico. Crede che il mutato atteggiamento da parte di un pezzo del mondo arabo verso Israele sarà permanente o si tratti solo di una fase temporanea?
Lo sapremo con certezza solo tra cinquanta o cento anni. In generale, resto convinto che il mondo arabo e il mondo musulmano in generale continuino a rifiutare la legittimità e l’esistenza di Israele. Chi ha siglato una pace lo ha fatto sulla base di una considerazione pratica, avendo compreso di non poter battere militarmente lo Stato ebraico. I paesi che hanno stretto accordi nel corso degli anni, a partire dall’Egitto, non sono paesi democratici: la decisione è stata presa da élite dominanti, che non rispecchiano il sentimento generale della popolazione. Al contrario, ritengo che invece la maggioranza degli israeliani desideri sinceramente di arrivare a una pace vera con i paesi arabi.