di Vittorio Robiati Bendaud
Pochissime ore ci separano dall’accensione del primo lume e dall’inizio della Festa di Chanukkà! Un augurio fervido ai nostri lettori, dunque, e un consiglio di lettura, sera per sera, dinanzi alle fiammelle danzanti delle lampade accede. Si tratta del libro Pensieri per le sere di Chanukkà dell’indimenticabile Rav Giuseppe Laras, corredato in calce dal prontuario di norme per la Festa a cura di Rav David Sciunnach (Salomone Belforte & C., 2019). Il pensiero di Rav Laras procede tra le sfide dell’oggi, da comprendere e affrontare, e la lezione proveniente dalle sfide attraversate e vinte dal popolo ebraico in un lontano passato, che “riattiviamo”: tra facebook e i Maccabei, tra i sionisti che fondarono l’Università Ebraica di Gerusalemme e Antioco. Il quadro viene tracciato da rapide e vivide pennellate, tra storia e attualità, haggadah e halakhah: un libriccino prezioso per le prossime sere.
Come ricorda il grande pensatore Yitz Greenberg, Chanukkà e Purìm sono due festività ebraiche in cui l’azione salvifica di Dio benedetto è mediata in primo luogo e primariamente dall’azione di esseri umani che presero in mano le proprie sorti – e quelle dell’intero popolo – riorientandone il destino. Dio è certamente presente, eppure non compare in prima linea: non è la dimensione potente e manifesta di Pesach, ma quella occultata e “in filigrana” della contemporaneità. Può ben trattarsi della dimensione del disincanto, del torpore e della fiacchezza propri dell’assimilazione, presa contropiede dalle sue estreme, inevitabili e violente conseguenze: una dimensione rispetto a cui s’impone l’imperativo di sopravvivere, con nuove e diverse strategie e azioni. In proposito, scriveva Rav Laras: “…l’iniziativa spetta in primo luogo all’essere umano, mentre coronarla con benedizione e successo è la risposta di Dio. Come ebbe a scrivere Rav J.D.B. Soloveitchik ‘certamente se il Signore non edifica la casa, invano faticano i costruttori (Salmo CXXVII,1), ma, se coloro che vi lavorano cessano di costruire, non ci sarà mai alcuna casa. Il Signore vuole che l’essere umano intraprenda l’opera che Egli, nella Sua infinita grazia, completerà’. Non esiste ebraismo senza questa fede; non esiste questa fede, senza una dose di coraggio e tenacia”. È l’azione di Yehudah Maccabeo, quel leader lucido e coraggioso celebrato da Dante nel suo Paradiso. Il fiorentino, guidato dall’avo Cacciaguida nel canto XVIII, lo incontra tra gli spiriti combattenti per la fede, dopo Giosué: “E al nome de l’alto Macabeo/ vidi moversi un altro roteando/ e letizia era ferza del paleo”. Quel Maccabeo cantato con arie gagliarde (1746) da G.F. Handel nell’oratorio Judas Maccabaeus, di cui raccomandiamo l’ascolto: “See, the conquering hero comes! Sound the trumpets! Beat the drums! Sports prepare! The laurel bring! Songs of triumph to him sing!”.
Scrive poi Rav Laras: “infine, si unirono ai resistenti non poche donne, coraggiose ed eroiche, sì che in seguito il Talmùd statuì che le donne, al pari degli uomini, debbono ottemperare alla mitzvah (precetto) dell’accensione della lampada di Chanukkà, dato che presero fondamentale parte attiva al miracolo”.
E così incede verso di noi, trionfante, Yehudith, l’intrepida Giuditta, che i Maestri di Israele associarono per il suo eroismo e per la sua resistenza alle prodezze che commemoriamo ogni anno a Chanukkà. Quella Juditha Triumphans esaltata senza pari da Antonio Vivaldi, nell’unico suo oratorio sopravvissuto, con libretto di Jacopo Cassetti. Composto nel 1716, l’oratorio vivaldiano celebra, riprendendo inaspettatamente il motivo cardine di Chanukkà del poco (e dei pochi) contro il molto (e i molti), la resistenza e la vittoria della piccola Corfù (Giuditta), all’epoca possedimento veneziano, contro il potente impero ottomano e il sultano (Oloferne). “Matrona inimica” (nobildonna nemica, per gli assiri) e “pulchra bellatrix” (bella combattente), Giuditta -mossa dall’anelito, dall’attesa e dalla speranza della libertà sua e del suo popolo (libertatis dulcissima spes)- ammalia le truppe ostili già con il suo stesso incedere, altero e seducente.
Chanukkà e Purìm, azione e impegno umani, Yehudith ed Ester. Due potenti personalità femminili, persino titaniche: tra eroismo e seduzione, tra erotismo ed emunah (fede e saldezza), tra politica e intimità. Due indomiti archetipi di Israele, con le loro audaci ed esigenti lezioni. E ci sovviene il dinamismo leggiadro del meraviglioso dittico di Botticelli, con Giuditta che rincasa recando nelle mani sia l’ulivo sia la daga assassina; le altere, intriganti e misteriose Giuditta del Cranach; quella sensuale e conturbante di Klimt. Ma anche la lunetta di Michelangelo nella Sistina, ove Giuditta ci mostra le spalle, mentre assistiamo al contorcersi disperato di un ciclopico Oloferne appena decapitato. E, ancora, gli spasmi muscolari del possente guerriero contrastano con il capo esanime e per metà reciso, impotente, dallo sguardo vitreo, nella scena immortalata da Caravaggio (1602): qui Giuditta è una dolce fanciulla, dai capelli dorati, circonfusa di luce, concentrata sul fendente appena scagliato in quel corpo maschile.
Ci sono poi le due straordinarie rappresentazioni di Artemisia Gentileschi (1617 e 1621), una più drammatica dell’altra, in un crescendo espressivo e cruento. In ambedue le opere, Giuditta -ornata di preziosi- e la sua serva, differentemente dalla tradizione invalsa, collaborano nell’uccisione dell’empio assiro, come se stessero sgozzando un porco (R. Barthes): una immobilizza il generale, l’altra è colta mentre lo uccide.
La difesa e l’estrema riscossa di Israele, rese da Artemisia, vanno a intrecciarsi con quanto la pittrice subì, esprimendo così la sua riscossa e la sua vendetta. Artemisia, infatti, dipinse questi quadri, dopo lo stupro che patì nella casa paterna a Roma da parte del pittore Tassi, regnando Pio V.
E, dunque, quest’anno, dinanzi ai lumi ardenti di Chanukkà, ricordiamo, come la Halakhah insegna, Yehudith, Hannah e i suoi figli e Yael. Un femminile indomito, che non ha rinunciato a essere seducente e materno al contempo, espressione di un popolo indomito, che non rinuncia a essere se stesso e a restituire il bagliore della luce che l’illumina.