di Nathan Greppi e Carlotta Jarach
«Oggi si parlerà di Diaspora, identità e dialogo; temi sui quali abbiamo, per duemila anni di esperienza, qualcosa da dire e anche qualcosa da ascoltare». Con queste parole il consigliere Gadi Schoenheit ha dato il benvenuto a tutti i presenti, domenica 10 settembre alla Sinagoga di via Guastalla, convenuti per la Giornata Europea della Cultura Ebraica: alte cariche dello Stato e delle forze dell’ordine, personalità religiose e politiche, tanti milanesi. Tra gli ospiti, uno speciale benvenuto al rappresentante della città di Amatrice, colpita dal violento terremoto nel 2016. La redazione di Bet Magazine / Mosaico ha seguito l’evento anche con una diretta sui social network che ha raggiunto, nel corso della Giornata, oltre duemila utenti.
Ringraziando i presenti, anche a nome del suo omologo Milo Hasbani, il co-presidente della Comunità Raffaele Besso ha spiegato che l’identità diasporica è un fattore con cui gli ebrei convivono da duemila anni. «Da ebrei italiani ci sentiamo parte integrante e integrale del nostro Paese, l’Italia appunto, ma volgiamo anche lo sguardo, con interesse, affetto, ammirazione e amore, e qualche volta apprensione, a quella piccola striscia di terra chiamata Eretz Israel. Oggi, – ha continuato – essere ebrei, essere diaspora, ci consente di comprendere pienamente il tema estremamente attuale delle migrazioni, dell’integrazione, dell’accoglienza».
Ha preso poi la parola il vice presidente dell’Ucei Giorgio Mortara, secondo il quale «questa Giornata è un’occasione per raccontare chi siamo. In questi tempi, quello ebraico è un ottimo modello di integrazione: siamo riusciti a mantenere le nostre tradizioni in tutti i Paesi in cui gli ebrei si sono insediati. Ci ricordiamo bene di quando l’Europa ci voltò le spalle; ma essere ebrei significa anche saper rispondere alle avversità, facendo così un’esperienza di rinascita e rinnovamento. Così l’ebraismo diasporico ha attraversato i secoli con un patrimonio sentito come una ricchezza, che può essere d’esempio per altre diaspore. E speriamo che anch’esse, come noi, imparino a chiamare “casa” questo luogo».
Rav Arbib: “Le differenze arricchiscono e il dialogo interculturale e religioso deve valorizzarle”
Dopo l’intervento del sindaco di Milano Giuseppe Sala e di altre personalità politiche, ha preso la parola Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano, introdotto da Vittorio Robiati Bendaud. Rav Arbib ha citato una frase del poeta Yehuda Halevì, vissuto nella Spagna medievale: Il mio cuore è in Oriente, e io sono nel profondo Occidente. «È una tipica condizione ebraica, sempre valida, in tempi e luoghi molto diversi. Non è una visione semplice e allegra, è una visione drammatica. È la testimonianza di una scissione». Per approfondire l’importanza della “doppia identità”, del doppio legame di grande amore, con l’Oriente, Israele, e il luogo in cui si vive, Rav Arbib cita il ladino, lingua degli ebrei sefarditi che però è di fatto il castigliano del ‘300, e che come l’yiddish e i dialetti ebraico-italiani dimostra un legame profondissimo con la terra dove si è vissuti. «Purtroppo, però, l’amore che gli ebrei avevano per la loro terra non sempre è stato ricambiato, come si è visto nel 1492 con la cacciata dalla Spagna». Il termine ebraico che indica la diaspora è galuth, che vuol dire “esilio”. L’aspetto di sofferenza e persecuzioni non va dimenticato, perché anch’esso ha “formato” la diaspora. «Ma c’è anche, da non dimenticare, – continua Rav Arbib – l’aspetto del reciproco arricchimento culturale. Galuth vuol dire anche “precarietà”; gli ebrei per molto tempo non sapevano per quanto sarebbero rimasti in un certo luogo. Nei principati tedeschi, ad esempio, ai tempi della peste nera dovettero emigrare da un posto all’altro, a volte avendo un permesso di soggiorno di pochi mesi. Una precarietà psicologica e culturale, che però, secondo la tradizione, non è solo fonte di sofferenza, ma è anche un bene. In Devarim viene criticato chi dice “La mia forza ha procurato tutto questo bene”, perché è una manifestazione di superbia, che porta al delirio di onnipotenza, fonte di ogni male. Quando si crede di poter “arrivare a Dio” si può fare qualunque cosa, anche cose orribili», e per spiegarlo meglio il Rav cita La caduta degli dei, il film sul nazismo di Luchino Visconti. «Il galuth, nella sua drammaticità, con tutta la sofferenza che comporta, ti mette nelle condizioni di non poterti credere Dio. La precarietà porta all’umiltà, la dote più grande, e da questo punto di vista è un bene per tutti. Tutti dovrebbero interiorizzare la condizione di essere allo stesso tempo stranieri e residenti, come Avraham».
«Oggi godiamo della parità di diritti e di un dialogo interculturale e interreligioso, che peraltro esiste solo da pochi decenni – ha aggiunto Rav Arbib -. Si cercano punti in comune ma così si banalizzano le differenze, che invece arricchiscono, occorre farle vedere, magari anche dicendo cose sgradite. Serve un dialogo sincero, nel rispetto dell’altro, che non vuol dire solo “non insultare” ma anche capire ciò che per gli altri è importante e rispettarlo». A volte vediamo l’opposto, come dimostrano le recenti mozioni dell’UNESCO contro il legame storico tra ebrei e la terra di Israele, «che sono una assoluta mancanza di rispetto. Non c’è dubbio, – ha concluso – nel rapporto tra identità, il rispetto è imprescindibile». (Nathan Greppi)
Cyril Aslanov:”L’ebraico è il segreto dell’unità dell’identità ebraica”
«La diaspora è archetipo». Inizia così la moderazione di Vittorio Robiati Bendaud, collaboratore da diversi anni del Prof. Rav Giuseppe Laras e impegnato egli stesso in prima persona, a più livelli, nel dialogo ebraico cristiano. Elemento indissolubilmente legato alla sfera ebraica, la diaspora ha una doppia chiave di lettura: è, allo stesso tempo, tipicamente ebraico, ma universale. «La diaspora riguarda la terra, riguarda l’umanità, la diaspora ci permette di sfidare il nostro tempo e porta ad una commistione di lingue» continua Bendaud.
E in questa babele, chi meglio di Cyril Aslanov, un poliglotta figlio di una triplice diaspora (e quindi di una triplice identità?), di origine ebraica, armena e francese, poteva spiegare e tentare di sciogliere la matassa?
L’interessante intervento del filologo (vedi qui il testo integrale), tra le varie membro dell’Accademia della lingua ebraica a Gerusalemme, ha dimostrato infatti la sottile quanto esistenziale relazione che intercorre tra tre elementi: diaspora, lingua e identità. Attraverso quattro semplici paradigmi, Aslanov dimostra come il popolo ebraico abbia saputo gestire il rischio della perdita della propria identità.
Il primo paradigma riguarda chi, per ragioni esterne, vede cambiare la lingua parlata attorno a sé. Ed è così esemplificativo l’esempio degli ebrei che vissero nella Palestina bizantina, costretti a lasciare il medio oriente dopo l’arrivo degli arabi, che sradicarono dal territorio le vigne, grande risorsa, rendendo di fatto la terra un deserto. Si spostarono così in altre zone dell’impero, come l’Aprilia, dove si parlava ancora greco, e poi con Carlo Magno, ad Aquisgrana, lingua il tedesco. Poi c’è il secondo paradigma, il più semplice, quella fuga fatta per non tornare, partenza senza ritorno: e Aslanov cita qui la migrazione a senso unico degli ebrei russi tra il 1881 e il 1914, quando oltre un milione di persone migrarono verso gli Stati Uniti.
Dal greco all’inglese, passando per la lingua romanza, il tedesco medievale e l’yiddish, questi ebrei hanno perso la relazione con le loro lingue d’origine, vinte di volta in volta dalla lingua del posto. Ma non hanno perso la loro identità ebraica. E prima di spiegarci come mai, attraverso altri parallelismi (vedi zingari in Spagna o italiani negli USA), gli ebrei siano stati i soli ai quali la perdita della lingua non abbia significato la perdita dell’identità, Aslanov descrive gli altri due paradigmi, speculari tra loro: il modello centrifugo e il modello centripeto. Una comunità che si propaga in varie direzioni dopo un evento traumatico (ebrei spagnoli dopo il 1492) il primo, il paradigma attuale di un ritorno in patria (Israele), il secondo.
E arriviamo così al nodo della questione: è l’ebraico il segreto. L’ebraico ha svolto il ruolo di mezzo di preservazione e mantenimento dell’identità. La differenza per gli ebrei è stata questa lingua di riserva, non parlata ma relegata alla cultura e ai salmi, che ha dato loro la forza di appoggiarsi su di una identità indipendente dai luoghi. E a chiudere il suo intervento, Cyril Aslanov cerca di dimostrare questa verità: ogni volta che nella storia gli ebrei si sono rifiutati di parlare ebraico, ecco che la loro identità è scomparsa con esso. Fu prima il caso di Alessandria d’Egitto dove gli ebrei erano troppo fedeli alla Koinè. Poi in Etiopia coi Beta Israel, o falascia, e in Portogallo con i cristãos novos. Secondo Aslanov poi, c’è un ulteriore esempio, in epoca moderna: «in ambito anglosassone, gli ebrei riformati stanno vivendo un’erosione dell’identità dal momento che hanno abbandonato il santuario linguistico che è l’ebraico».
(Carlotta Jarach)