‘Eros, donne, esilio e sopravvissuti alla Shoah. Isaac Bashevis Singer e l’etica della protesta’: un evento di Kesher

Feste/Eventi, Kesher

di Michael Soncin

“Come Giobbe verso il cielo Singer alza il pungo e si chiede: «Perché il giusto soffre e il malvagio trionfa? Dov’è, dove sei?». È una domanda che egli si pone assieme ai suoi personaggi. L’etica della protesta, tema ebraico per eccellenza, è parte del corpus della sua narrativa, con D-o che cerca l’uomo e l’uomo che cerca D-o, poiché nella tradizione askenazita se l’ebreo non protesta non è ebreo, e Singer stesso questo lo scrive nella sua autobiografia”. A dirlo è stata Fiona Diwan, direttrice dei media della Comunità Ebraica di Milano, nel corso della conferenza organizzata da Kesher il 15 novembre dal titolo Isaac Bashevis Singer e l’etica della protesta (eros, donne, esilio e sopravvissuti alla Shoah).

“L’etica della protesta – continua Diwan – è un furore morale, è il filtro del disincanto, vuol dire sentire i dolori del mondo, sentirli ed essere toccati in prima persona, oltre ad animare e divertirci, ci fa riflettere su quello che è il rapporto col mondo ebraico askenazita, sia fra quello secolarizzato che quello chassidico, che lituano. Nel 1962 dopo averci provato più volte,  egli decide di diventare vegetariano, anche qui la scelta vegetariana come protesta”. 

A fare da sfondo alla conferenza è stato il libro Un inafferrabile momento di felicità – Eros e sopravvivenza in Isaac B. Singer, che come ha spiegato l’autrice Fiona Diwan, nasce da un lavoro di ricerca a partire da due libri inediti di Singer usciti negli ultimi anni: Keyla la Rossa (2017) e Il Ciarlatano (2019). “Testi inediti, inediti perché considerati imperfetti, non finiti ma bellissimi, che ci consentono di entrare nella cucina dello scrittore, oltre ad essere delle novità assolute per chi lo conosce”, illustra Diwan. Il Ciarlatano è “una commedia piena di humour velata di tragedia”, mentre Keyla la Rossa, “un romanzo scandaloso, una gangster novel. Infatti, quando Singer vinse il Nobel per la letteratura nel 1978, diventato famoso, decise di bloccarne la stampa, poiché “non voleva dare in pasto al mondo una storia del genere, con un’immagine di quel tipo, di un mondo ebraico che era finito ad Auschwitz in quel modo, anche se è un romanzo facente parte di un genere letterario di cui il mondo yiddish era pieno. Nel mondo ebraico dell’Europa dell’Est, era normale, vi era una normalità di tutte le tipologie umane”.

L’impossibile di Singer: “Dare voce ad un mondo che non c’è più”

E se l’apriporta che ha spinto l’autrice a scrivere questo libro su Singer, sono questi due singolari romanzi inediti, va ricordato che sul genio della letteratura yiddish, in particolare in Italia, dal punto di vista della critica, escluso qualche capitolo, non è stato scritto nulla, perciò questo testo, come in molti hanno sottolineato, permette di entrare nei romanzi dell’autore con una maggiore consapevolezza. 

“Tutto nasce anche dalla volontà di dire qualcosa – commenta Diwan – che non era stato detto, ed accendere anche il desiderio verso l’impossibile, il desiderio nasce sempre da qualcosa di impossibile e l’impossibile di Singer è dare voce ad un mondo che non c’è più. Ma c’è molto di più. Scrive in yiddish per un pubblico che si sta assottigliando, si costringe ad autotradursi in inglese per un pubblico di milioni di persone, facendo un lavoro immane. Altra contraddizione, gli danno il Nobel, leggendolo in inglese, poiché a Stoccolma non l’avevano letto in yiddish. Il loro mondo è una Pompei, è finito, è un Atlantide che è stata sommersa dalla guerra”. 

Singer è un po’ come Woody Allen 

“I due testi – Keyla La Rossa e Il Ciarlatano – dimostrano che sono in grado, ancora dopo decenni, di spingere qualcuno a mettersi alla scrivania e scrivere un libro che è intriso di passione. Singer palpita nelle pagine del libro. La vivacità dell’autore si è trasferita nelle pagine del saggio”. A dirlo è stata Anna Linda Callow, tra i presenti alla conferenza, traduttrice dall’ebraico e dallo yiddish e docente di Lingua Ebraica presso l’Università Statale di Milano.

Callow ricorda che l’approccio autotraduttivo di Singer, si era già visto in qualche modo anche in altri scrittori. Ad esempio, alla fine dell’Ottocento vi erano autori che scrivevano in yiddish e si traducevano in ebraico e viceversa, ma la peculiarità di Singer è che lui stesso fa quello che oggi gli scrittori israeliani chiedono di fare ai traduttori.

“Certo, il loro pubblico non si assottiglia oggi, – sottolinea Callow – ma è un pubblico piccolo. Loro non vedono l’ora di essere tradotti, non vedono l’ora che la loro voce possa varcare i confini di Israele. Quindi se Singer faceva questa operazione di limare le parti che potevano essere troppo ebraiche e incomprensibili per il pubblico non ebraico di lingua inglese, gli scrittori oggi scrivono già con in mente la traduzione, come ci sono anche scrittori che scrivono pensando già al film, nel caso il libro abbia successo e passi al grande schermo. Vedo una continuità in questi passaggi di lingua”. 

“Ci sono state molte polemiche su Singer – sottolinea ancora Callow – ma lui non viveva in una nobile famiglia, in una torre d’avorio. Era emigrato da solo, e da solo doveva costruirsi una professione. Figlio di un rabbino chassidico, quello che si portava a New York era la Polonia, era la sua vita a Varsavia, dentro di sé un materiale biografico, il cui tutto diventava fonte di narrazione. Per certi versi Singer è molto simile a Woody Allen, dove i personaggi per molti motivi non sono mai del tutto risolti.

Singer è un viaggiatore temporale

E se vi è una continuità nei passaggi di lingua, vi è anche una continuità a cavallo tra i tempi che unisce i lettori di epoche diverse. “Singer – dichiara l’autrice – è stato per la mia generazione una rivelazione e la grande sorpresa è che a distanza di tutti questi anni, nulla è cambiato. Oggi Singer riesce a parlare anche ai giovani, perché è in grado di creare dei cortocircuiti tra ambiti esistenziali che abitualmente non vanno d’accordo, di mettere insieme la fede e le grandi domande, con la piccolezza degli esseri umani. Questo lo rende contemporaneo”. Le pagine di Singer sono fatte di una carta in grado di rimanere piegata fra i diversi tempi.

Diwan ricorda anche che Singer non ha risposte, però le domande sono domande aperte, e tutto ciò è un tratto tipicamente ebraico. Non è come nella filosofia hegeliana, costituita dal noto trittico: tesi, antitesi, sintesi. 

Nell’universo ebraico noi sappiamo che esistono due posizioni che discutono, antitetiche a volte molto conflittuali ma che possono coabitare nello stesso spazio mentale. Queste opposizioni nei personaggi di Singer non cercano mai una soluzione”.

Un po’ come Manzoni

“L’operazione di Singer e della sua narrativa non è molto diversa da quello che nella letteratura italiana ha fatto Manzoni con i Promessi Sposi”, ha così affermato nel corso dell’evento Alberto Cavaglion, docente universitario, grande esperto di Italo Svevo e Primo Levi. 

Un paragone decisamente acuto. Ma cosa hanno in comune i due scrittori? “Manzoni – spiega Cavaglion – ha consentito di far comprendere ai lettori l’idea di provvidenza, secondo la visuale del mondo cattolico che conosceva bene, ma che solo lui ha saputo tradurre e mettere in scena, facendoci conoscere l’amore conteso e compassionevole di Renzo e Lucia. Singer ha fatto lo stesso, aveva una grande famigliarità con questi concetti e li ha divulgati con una serie narrativa, mettendo in scena personaggi che ricalcano questi principi”. 

“Per la questione intricatissima dello scrivere dopo Auschwitz, Singer si colloca in una posizione molto particolare.

Non racconta i fantasmi dell’abominio, è un sopravvissuto silente che racconta la sua situazione di superstite alienato nella New York dove va a vivere, ma non c’è una pagina dove parla del momento della sua prigionia, dell’arresto, della permanenza nel lager, o peggio ancora della rappresentazione della violenza o della brutalità fisica”, conclude Cavaglion.  

“E la parola felicità che cos’è per Singer? Lui stesso dice che la parola felicità per un ebreo è quasi impronunciabile, quasi blasfema. Aleggia un malessere fisico e metafisico. Egli si porta dietro la fine del proprio mondo” ha ribadito Diwan.