di Roberto Zadik
Fin dagli anni ’60 la Comunità ebraica milanese si è progressivamente trasformata, grazie all’arrivo di migliaia di ebrei in fuga dal Medio Oriente e dal Nord Africa, “sfollati” da un mondo arabo e mediorientale che da quel momento esiste solo nei loro ricordi e pronti a ripartire da zero, spesso e volentieri affrontando grandi difficoltà. Storie, emozioni, testimonianze, filmati sono stati i protagonisti dell’intensa maratona di interventi, Storia della Comunità ebraica di Milano-Testimonianze di ebrei arrivati a Milano nel secondo dopoguerra che organizzata dal Cdec, Centro di Documentazione ebraica in collaborazione con la Comunità e diretta da Vittorio Bendaud, saggista e conferenziere e da Myrna Chayo, ex docente di lingua araba alla Statale di Milano ha visto la partecipazione di numerosi ospiti. Vicende intense e mai raccontate, se non in opere recenti come Il grande nascondimento di Daniel Fishman sugli ebrei persiani e La stella e la mezzaluna di Bendaud sulle peripezie degli ebrei di tutti i Paesi dominati dall’Islam. Citando questi testi, l’iniziativa si è perfettamente inserita nel leit motiv Percorsi ebraici, tema dominante di questa edizione della Giornata della Cultura ebraica, che a causa della pandemia del Covid 19, si è svolta su Zoom interpellando i vari relatori dalle loro abitazioni. Tanti gli interventi e le memorie di un mondo ebraico sefardita-orientale estremamente affascinante e del tutto scomparso che hanno restituito al pubblico non solo la “fotografia” del passato ma anche preziosi aneddoti famigliari, personali e collettivi dell’arrivo e del processo di integrazione nella Comunità ebraica milanese, descritta da tutti come accogliente e ben disposta verso i tanti profughi bisognosi di sostegno sia economico che morale. Nella panoramica sia le storie delle Comunità persiane e siro-libanese, le più numerose e attive nel tessuto comunitario attuale, ma anche gli ebrei tripolini e egiziani e gruppi divenuti minoritari, come egiziani, turchi e iracheni
Quali sono state le vicende? Da quali Paesi e famiglie? Qui sotto in sintesi i principali interventi
I marrani di Mashad (Iran)
Il marranesimo coraggioso degli ebrei persiani della città di Mashad ha aperto la lunga serie di testimonianze. A descriverlo il consigliere comunitario David Nassimiha e Naghme Etessami, dalla sinagoga della sinagoga persiana del Noam di cui su Zoom hanno mostrato alcune immagini e che come ha detto Nassimiha “è un centro di ebraismo molto attivo , ogni giorno e a maggior ragione a Shabbat la gente si riunisce e dove abbiamo mantenuto unità e valori comuni”. Soffermandosi sulla tormentata storia degli ebrei persiani, dei quali come ha specificato Bendaud, si parla nella Megillat Ester a Purim, Nassimiha ha ricostruito efficacemente le tappe della storia ebraica persiana. Dai sopravvissuti dell’esilio babilonese che hanno gradualmente formato la presenza ebraiche delle varie città iraniane, dalla più laica Teheran alla più religiosa Mashad, la presenza ebraica mashadita, città da cui proviene la maggioranza degli ebrei persiani residenti a Milano, egli ha descritto l’operazione del sovrano persiano come Nader Shah nel 1744. Definito “Il Napoleone d’oriente” egli portò a Mashad una quarantina di famiglie dalla città di Qadzvan e che vissero nella nuova città in tranquillità per un secolo. Nel loro interessante racconto Nassimiha e Etessami hanno mostrato brevi video e fotografie, soffermandosi sull’ultimo secolo, dal 1839 quando improvvisamente tutto cambiò. In quell’anno “un gruppo di facinorosi” come ha ricordato Nassimiha “organizzò una sorta di pogrom massacrando 50 persone in un giorno e mezzo”. Una strage che portò al peggioramento della condizione ebraica nella città iraniana e dove la scelta era convertirsi all’Islam o morire. “Fu così che” come hanno ricordato anche la Etessami “iniziò il cosiddetto marranesimo, dove in casa praticavamo l’ebraismo mentre esteriormente ci furono conversioni all’Islam”. Paura, ma anche tenacia e fede nel restare ebrei attaccati all’ebraismo in quelle terribili condizioni. In seguito alla rivoluzione di Khomeini del 1979 “molti lasciarono l’Iran dirigendosi verso varie città del mondo” ha evidenziato Nassimiha “ da Londra a New York a Milano mantenendo da sempre quel senso di unità, attaccamento alla famiglia e alle tradizioni religiose che da sempre ci caratterizza”. L’adattamento alla Comunità di Milano? “Per molti è stato difficile con una mentalità occidentale completamente diversa, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, dimostrando come sia possibile integrarci nella società restando quello che si è”.
Memorie dall’Egitto
Dedicata alla memoria di Miki Sciama, personaggio importante comunitario e scomparso in questi mesi a causa del Covid 19, l’approfondimento sugli ebrei egiziani è stato condotto da Remy Cohen che si è soffermato sulla sua storia famigliare. Nato ad Alessandria d’Egitto, centro di una raffinata realtà culturale cosmopolita, egli dovette fuggire con la famiglia, all’età di nove anni a causa della Guerra di Suez e dell’antisemitismo di un leader nazionalista come Nasser. Emozionante la sua descrizione della fuga, “dovemmo lasciare tutto e ci portammo una serie di oggetti come dai libri di preghiera di Kippur fino all’anello di fidanzamento dei miei genitori, arrivando a ingoiare alla dogana alcuni gioielli risputandoli dopo aver passato il confine”. Una fuga davvero rocambolesca come quasi tutte quelle di questi ebrei arabi fuggiti dalla metà degli anni ’50 come la famiglia Cohen. Toccante la frase “Si parla tanto di uscita dall’Egitto ma esso è sempre rimasto dentro di noi”. Arrivati in quel gelido inverno del 1956, il 29 dicembre, a Milano Cohen ha ricordato i difficili inizi “abitavamo all’Hotel Gamma e fortunatamente mia madre parlava italiano avendo vissuto in Italia dal 1920 al 1933”. “La Comunità ci accolse molto bene e siamo arrivato fino adesso, solidali fra di noi, anche se non molto religiosi ma legati alle tradizioni. Abbiamo una Cassa comune e Tempio funzionante a Roshashannà e Kippur”.
Una lunga e densa parentesi siro-libanese
Molto attivi attualmente, come i persiani, anche la comunità sir-libanese è una realtà consolidata e “ancora legatissima al suo passato, fra di noi parliamo ancora una sorta di arabo mescolato al francese” ha ricordato Moisè Katri. Nell’intenso intervento di Myrna Chayo, ha ricordato sia le difficoltà di essere ebrei ad Aleppo, che era un centro ebraico estremamente vitale pieno di grandi rabbini e di sinagoghe, che le storie di amicizia con alcune famiglie locali anche se “per secoli abbiamo vissuto in una condizione di sottomissione e di umiliazione”. Nel suo racconto il ricordo delle conversioni forzate, delle differenze fra islamici sunniti e sciiti, i soprusi a danno degli ebrei come cavalcare gli asini per gli ebrei invece dei cavalli e indossare scarpe mezze aperte cosicchè i piedi soffrissero a contatto col terreno, l’obbligo di vestirsi diversamente dalla maggioranza in un “costante senso di paura e incertezza”. Non mancavano però, anzi, “tante persone solidali che ci aiutarono ma la situazione era molto difficile”. In tutto questo molto emozionante il video in cui la signora Sylvia Attar Heffez z’’l scomparsa nel 2018 ha raccontato della sua infanzia in Siria fino alla drammatica fuga prima verso il Libano e poi in Italia e decisamente vivace il racconto del signor Moisè Katri “appartengo a una delle poche famiglie libanesi mentre i 3/4 delle famiglie venute a Milano sono siriane emigrate successivamente a Beirut”. Nei suoi ricordi, memorie positive, di una Beirut multietnica e raffinata, dove c’erano scuole francesi, collegi americani e un senso di reciproco rispetto fra le varie etnie, musulmani, cristiani, ebrei tutto questo fino alle guerre del 1975, quando i circa 5mila ebrei libanesi dovettero lasciare il Paese. Successivamente l’arrivo a Milano. “Pensavamo che le guerre sarebbero finite presto e dopo poco saremmo tornati” ha detto “ ma non fu così, i conflitti durarono 15 anni e alla fine siamo rimasti qui e siamo ancora molto amici fra di noi che ci ambientammo facilmente perché c’erano già tanti ebrei dai Paesi arabi quando arrivammo”. Fra le testimonianze il ricordo del presidente comunitario Hasbani che nato in Libano ha ricordato l’arrivo in Italia con passaporti iraniani, che furono validi per molti anni, ringraziando i presenti per gli interventi di “un pomeriggio lungo ma estremamente interessante”.
La Libia nei ricordi di Walker Meghnagi e di Walter Arbib
Divisa in due grandi centri ebraici, “Bengasi che venne maggiormente influenzata dall’ebraismo egiziano mentre Tripoli che venne maggiormente influenzata dall’ebraismo tunisino e in particolare di Djerba”, la Libia ebraica sta riemergendo dall’oblio in questi ultimi anni ed è stata protagonista dei racconti di due affermati imprenditori, Walker Meghnagi ex presidente comunitario e Walter Arbib al centro di una serie di incredibili aneddoti. Meghnagi ha ricordato la sua infanzia in una capitale libica, con una forte influenza italiana fino alla fuga improvvisa, in soli 3 giorni, quando la popolazione, in seguito alla vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, si rivoltò in massa contro gli ebrei. “Avevamo paura, vedevamo masse di gente con in mano i forconi che ci minacciava e nostro padre ci diceva di nasconderci in casa e di abbassare le tapparelle” e subito fuggimmo da Tripoli, quando avevo 16 anni e andammo a Milano mentre la maggioranza dei tripolini si recarono a Roma. Molto avventuroso il racconto del 79enne Walter Arbib “la cui vita potrebbe essere un romanzo”, come ha detto Bendaud, e che passò la vita girando fra vari Paesi nella sua attività di imprenditore ma dedicandosi a missioni umanitarie e a progetti importanti. Fra i racconti quando andò in Egitto a negoziare col presidente Sadat per la liberazione verso Israele degli ebrei locali, l’aiuto dato al Museo ebraico degli ebrei di Libia in Israele, le missioni di pace in Iraq ai tempi della dittatura di Saddam Hussein, fino alla riconoscenza verso Renato Tarantino grazie a cui gli ebrei libici poterono fuggire all’Italia, condivisa da Meghnagi e da tutti i relatori, anche se ha detto scherzando “preferisco vivere in Canada”. In conclusione si sono alternate tre storie importanti, dalla Turchia, dalla Grecia e dall’Iraq come ultime tre nazioni di questo grande excursus sui “nuovi ebrei milanesi” arrivati dal mondo islamico.
Turchi, greci, iracheni, la storia dei gruppi “minori” della Comunità ebraica milanese
Ci furono anche alcuni gruppi ebraici, come turchi e greci, estremamente divisi, aperti alla società circostante e assai poco osservanti ma con una storia decisamente interessante e per niente nota. Gli ebrei turchi, sono stati raccontati da Avraham Hason, ex consigliere comunitario nativo di Smirne (Izmir) che ha descritto una condizione ebraica turca non particolarmente segnata da persecuzioni, così come formata da individui separati e emigrati “soprattutto per ragioni economiche” anche se la presenza ebraica in Turchia “ha 2.400 anni di storia” ed è caratterizzata “dall’umore dei vari Sultani, molto bravo fu Soleimano il Magnifico, dall’arrivo dei sefarditi, dalla Cacciata degli ebrei spagnoli e portoghesi, che costituirono un importante gruppo assieme alcune famiglie ashkenazite, italiane e rodiote, ebrei di Rodi già presenti precedentemente”. Hazon racconta di una Istanbul multietnica e molto ebraica dove in tempi antichi , quando si chiamava Costantinopoli c’erano “30mila ebrei e 44 sinagoghe”. In tema di gruppi ebraici “defilati” molto preziosa anche la testimonianza di Lilj Uziel per l’ebraismo greco. “Uno dei gruppi ebraici più antichi del mondo, gli ebrei greci e soprattutto Salonicco e Rodi” ha detto e i sefarditi ebbero fondamentale importanza, accanto ai legami con l’Italia profondi delle comunità delle isole di Rodi e di Corfu’ “dove si parlava italiano”. “A Salonicco c’era una grandissima comunità ebraica fino alla Shoah in cui i nazisti la distrussero e la maggioranza degli ebrei greci che riuscirono a fuggire facevano i commercianti e i negozianti e per questo anche io e la mia famiglia venimmo a Milano”. Ultima testimonianza, intervistato lo scorso mese di luglio, dalla storica Liliana Picciotto del Cdec, l’ebreo iracheno Heskel Nathaniel che ha narrato la sua interessante storia. Nato a Baghdad, studiò alle scuole francesi dell’Alliance Israelite, particolarmente portato per il commercio divenne gestore di una ditta di pompelmi e riuscì a fuggire dall’Iraq verso il Libano in autobus continuando a gestire il suo business anche a Milano. “Mi sono ambientato benissimo e per me è diventata una seconda casa molto presto” ha detto entusiasta.