Ghitta e il fascino indiscreto del potere

Feste/Eventi

di Natalia Aspesi

Fotografava solo la “grandezza”: aristocratiche con figli e cani aristocratici, poeti, scrittrici, dive intellettuali, generali, gerarchi, membri di case regnanti. Fotografava gente bellissima che lei riusciva a rendere ancor più bella: le sue donne sembravano sempre regine inavvicinabili eppure dolcissime, i suoi uomini forti, intelligenti, dominatori.

Naturale che Ghitta Carell, ebrea, ungherese, classe 1899, fosse, specie negli anni Trenta italiani, la fotografa e ritrattista più richiesta e desiderata dell’Italietta in camicia nera. Con una lieve aureola di luce intorno alla testa, gli occhi luminosi, l’abbigliamento enfatizzato come nei vecchi dipinti di grandi re e regine -alla Giovanni Boldini-, i personaggi di quell’epoca non erano, nelle sue fotografie, se stessi, ma piuttosto come volevano essere ed apparire: maestosi, splendidi, misteriosi, affascinanti e soprattutto eleganti, raffinati, di una classe rarefatta e intoccabile.

Più che personaggi reali, nelle lastre di Ghitta Carell, Edda e Costanzo Ciano, Benito Mussolini e Cesare Poggi, Alberto Savinio e Giovanni Papini, Alba De Cespedes e Vittorio Emanuele di Savoia, i Marone Cinzano, i Gonzaga, i Diaz, i Borghese, i Cicogna, i Visconti, i Colonna…, diventavano protagonisti dl romanzi ungheresi, emblemi di una vita aristocratica e lontana che non toccava l’Italia di allora, fantasie di grandezza, esempi inimitabili per la classe borghese.

Ghitta Carell era arrivata a Firenze nel 1924, come turista, e si era invece fermata, affascinata dalla città. Era nata in Ungheria, aveva studiato fotografia a Budapest: i primi anni, a Firenze, aveva vissuto come una hippy ante litteram: senza una lira, mangiando orrende minestre di farina e kummel, portando vestiti confezionati da lei che, come ricordava Camilla Cederna in un suo articolo, non sapeva tenere l’ago in mano. In anni in cui le donne portavano gonne corte al ginocchio e tacchi alti, Ghitta, per povertà, si vestiva come un’eroina di D. H. Lawrence, come la June di Henry Miller: gonne lunghe e svolazzanti, sandali piatti, giubbetti alla russa di taffetà rosso o azzurro.

A lanciarla fu la foto, scattata nel 1926, del figlio della padrona della sua pensioncina, vestito da Balilla. La foto fu scelta per un manifesto di propaganda che tappezzò i muri di tutta la Nazione. Da quel momento, l’Italia stracciona e miseranda di allora non sostò più davanti al suo obiettivo: era iniziata la sfilata di contesse e principesse, delle bellissime e elegantissime donne di sogno. Avere un ritratto di Ghitta, che intanto si era trasferita a Roma, divenne uno status symbol indispensabile, come i gioielli di famiglia, come gli abiti comprati, malgrado il nazionalismo, nelle sartorie francesi. Ghitta sosteneva di non saper fotografare, di riuscire, ogni volta, a manovrare misteriosamente la sua vecchia macchina, come per una intuizione o un attimo di fortuna.

Anche quando si diffuse la fotografia a colori, continuò a prediligere il bianco e nero, che le permetteva di inventare anime straordinarie ai suoi modelli spesso troppo algidi. La sua grande arte era anche il ritocco lavorando con delicatezza da chirurgo, da ricamatrice: sulle lastre toglieva ai visi ombre, durezze, vuoti, crudeltà. Fu forse la sua straordinaria capacità di dare ai personaggi fascisti un’aria meno torva e meschina, di rappresentare pennacchi e decorazioni senza rendere ridicoli chi li indossava, di attribuire una eleganza, una pensosità intensa, una disinvoltura di classe internazionale, a fare dimenticare la sua origine ebraica a chi avrebbe promulgato nel 1938 le leggi razziali. L’immagine che lei riusciva a tratteggiare, di un regime cosmopolita e raffinato, era troppo lusinghiera perché non venisse “naturale” dimenticare un dettaglio così trascurabile, ovvero l’ebraismo della famiglia.

Negli anni Trenta la realtà era stata bandita dall’immagine. Nulla doveva rappresentare la vita vera; né il cinema che puntava su film in costume o eroici o con melense storielle d’amore; e non rappresentava la vita tutta la iconografia fascista, portata al gigantesco, all’epico, al propagandistico. Non rappresentava la realtà neppure l’arte di Ghitta Carell ma non per calcolo, non per opportunismo,  e non per la necessità demagogica di intontire gli ingenui e incanalare le masse. Il suo era un modo di cercare dietro alle facce, di dare a quelle facce il gusto del bello, dell’aristocratico, del cerebrale, del sublime: un elemento questo, che apparteneva a una cultura completamente estranea a quella fascista.

Eppure, non rappresentando davvero quel mondo, la fotografie di Ghitta Carell restano la testimonianza straordinaria di un’epoca: di quello che il Potere di allora avrebbe voluto essere e non riusci neppure a sembrare. Nelle 50 mila lastre che appartengono adesso al Centro Informazioni Ferrania 3M, c’è la classe e l’intelligenza che mancò alla realtà: i broccati, le volpi, i rasi, le scollature i cappellini delle dame, i capelli ondulati, la carnagione trasparente, gli sguardi innocenti delle grandi eredi, la grazia regale, i profili alteri di bambini aristocratici, il disegno perfetto dei cani di razza. Dei ritratti maschili, i suoi più riusciti, sono quelli degli uomini non in divisa ma in borghese, simili a certi divi dei film francesi dell’epoca, romantici e struggenti: il principe Mario Colonna abbronzato nella bianca camicia aperta. Marcello Piacentini in soprabito inglese e cappello. Persino Ciano e Mussolini sono ritratti, inconsuetamente, in doppiopetto bianco, pensosi e non baldanzosi.

Estranea ad ogni mitizzazione dell’estetica fascista, Ghitta Carell ha mitizzato solo la raffinatezza: è per questo che le sue fotografie restano, di quegli anni, l’unico vagheggiamento. Possibile e consentito.

La mostra rivisita la sua parabola artistica

Fu una star indiscussa ma occultò il suo essere ebrea

Ghitta Carell fu per oltre 30 anni il personaggio della fotografia più celebre d’Italia. La sua fama oscurò tutti gli altri. Nelle case degli italiani, la presenza di un ritratto eseguito da lei era uno status-symbol. Chiunque avesse potuto permetterselo, non vi rinunciava». Così spiega Diego Mormorio, curatore della mostra “Ghitta Carell e il potere del ritratto”. E di fatto, il suo nome entrò di diritto nello smart set dell’epoca. Ghitta Carell o del ritratto: l’unica, insostituibile in quegli anni, a Roma. Entrata nelle simpatie della nobiltà che affollava la sua anticamera, venne un giorno adottata dal regime (a Monaco e poi a Berlino la giovane Leni Riefenstahl, passata poi al cinema, aveva ricevuto to stesso crisma dai nazisti). Sembra dunque fondata l’opinione che il successo di Ghitta Carell provenga, oltre che dal nome straniero, principalmente dall’aver lavorato a Roma. Quella borghesia non cercava di meglio di quel gusto morbido e distinto in cui idealizzarsi. Padrona del mezzo tecnico, volle volontariamente piegarlo al gusto facile di altezzosi committenti che forse detestava, sapendoli indifferenti al più e al meglio che lei avrebbe saputo e potuto fornire. Durante le Leggi razziali, le fu intimato di defilarsi, di sparire. che nessuno l’avrebbe cercata. Oltre 150 fotografie in mostra a Roma, alla Fondazione Pastificio Cerere (via degli Ausoni 7, fino al 17 maggio, 0645422960), restituiscono la storia di un’epoca attraverso i protagonisti di allora, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Voluta fortemente da Elsa Peretti, presidentre della Fondazione, la mostra riconsidera la figura della fotografa ungherese all’interno della vitalità della fotografia italiana e del tessuto culturale di allora, amica di scrittori, crirtici d’arte e scultori, da Bernard Berenson a Marino Marini. Personaggio controverso, volutamente dimenticato nel Dopoguerra, l’ipoteca fascista gravò a lungo sulla sua arte e non gli fu mai perdonata quella stagione compiacente, al di là della sua grandezza di ritrattista. Divenne cittadina italiana nel 1959. Emigrò in seguito in Israele e muore a Haifa nel 1972.