di Davide Foa
Nella prima metà del XVI secolo la cristianità dovette fare i conti con delle forti spinte riformistiche che diedero vita a una molteplicità di correnti protestanti, decise a staccarsi dalla Sede romana.
Tre secoli più tardi anche l’ebraismo, seppur in forma più contenuta, fu attraversato da sentimenti “liberali” che misero in discussione la validità della legge tramandata, anche detta Alachà.
Di questo riformismo ebraico, sviluppatosi nell’ottocento, ha parlato Mino Chamla, docente di Storia e Filosofia presso la Scuola Ebraica, in occasione della conferenza intitolata appunto, “l’Ottocento ebraico: ponti tra tradizione e “riforma”, diaspora e Sion”. Il tutto inserito nella tematica dei “ponti”, linea guida della Giornata europea della Cultura Ebraica del 6 settembre.
Per comprendere le motivazioni di quella che fu una scissione all’interno del mondo ebraico, è bene partire da una domanda fondamentale: in che cosa consiste l’identità ebraica? Chamla ricorda il pensiero di Vico, secondo cui gli ebrei, diversamente da tutti gli altri popoli, non hanno attraversato la cosiddetta fase dei “bestioni”, ovvero l’età primitiva, poiché hanno goduto della rivelazione divina.
Una volta ottenuta la rivelazione, gli ebrei hanno iniziato ad interrogarsi su quale potesse essere il loro ruolo nel mondo. È possibile quindi identificare l’identità ebraica come una continua interpretazione e reinterpretazione di sé, allo scopo di trovare un effettivo ruolo nel mondo.
Nella storia del popolo ebraico, una data fondamentale è sicuramente il 1492: la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Quell’episodio, il Gherush, segna l’inizio della modernità ebraica. Un evento che “ condiziona tutta la cultura e il popolo ebraico”, precisa Chamla.
Da quel momento, gli ebrei escono da un’esistenza storica statica, tipicamente medievale, dove, seppur emarginati, godevano di uno status preciso, ed entrano invece in una lunga fase di interrogazione di sé. Possiamo quindi considerare la Cacciata come un trauma che spinge gli ebrei a reinterrogarsi in maniera radicale sul proprio ruolo nella Storia.
In questo continuo e caratteristico dubbio esistenziale, si inserisce la conferenza dei rabbini liberali tedeschi a Brunswick tra il 1844 e il 1846.
Essi si interrogarono su quali potessero essere le prospettive per l’ebraismo del tempo. Da qui, nacquero diverse correnti riformate, alcune moderate, altre più radicali, tutte accomunate dal desiderio di mettere in discussione i valori della tradizione ebraica.
In realtà, come spiega il relatore, tentativi di riforma interni all’ebraismo erano già iniziati verso il finire della prima decade del XIX secolo. Molti sentivano infatti la necessità di cambiare l’ebraismo soprattutto da un punto di vista estetico, sia nel campo della liturgia che in quella della vita quotidiana.
La religione, nella visione riformata, diventava un fatto privato più che pubblico; il cittadino ebreo avrebbe dovuto inserirsi maggiormente all’interno del contesto cittadino, rafforzando i legami con la propria nazione di appartenenza. Anche per questo si propose l’eliminazione dal rito di tutte le preghiere che rimandassero al ritorno a Sion.
In un certo senso, i riformati esprimevano un sentimento anti-sionista ante litteram, visto che il movimento nazionalista di Hertz ancora non aveva preso forma.
In realtà, già nel XX secolo il movimento riformato si schierò in gran parte a favore della causa sionista, poiché, come sostiene Chamla, “riconobbe la necessità assoluta di Israele per la vita e l’esistenza degli ebrei”.
Così come era stato per la riforma protestante del ‘500, allo stesso modo quella ebraica si oppose alla tradizione.
Riforma e tradizione sembrano in effetti due termini destinati a rimanere su due sponde opposte di uno stesso fiume.
Chamla non è però di questo parere, poiché senza tradizione non vi sarebbe riforma; i due termini stanno dunque in un “rapporto polemico ma vitale”: senza un ponte che li unisce, non avrebbero senso di esistere.