di Dova Cahan
La scrittrice Dova Cahan racconta la sua Giornata della Cultura Ebraica;
“da Varsavia e Cracovia a Napoli, inseguendo l’Yiddish”
Quest’anno, la Giornata della Cultura Ebraica con soggetto “Lingue e Dialetti Ebraici” è stata celebrata in diverse date: nelle città dell’Europa dell’Est il 4 Settembre 2016, come d’abitudine la prima domenica del mese di Settembre, mentre in tutta l’Italia ed altre nazioni europee il 18-20 Settembre 2016.
Il 4 Settembre io mi trovavo a Varsavia, in Polonia, che fu considerata la culla dell’ebraismo e della lingua Yiddish per più di mille anni. Lì ho assistito, in questa memorabile giornata a ricordo di una popolazione ebraica di oltre 3 milioni che oggi non esiste più, ad una famosa replica teatrale in questa lingua, che fu anche la lingua parlata da noi a casa, dai miei genitori, dai miei zii e dai miei nonni.
La lingua Yiddish è la lingua degli Ebrei Askenaziti nata intorno al decimo secolo e il suo termine deriva dal tedesco jiddish ossia “giudeo”. Fu parlata soprattutto dagli ebrei dell’Europa centrale e orientale, prima della seconda guerra mondiale in Europa, negli USA, nell’America Meridionale, in totale da una popolazione di circa 11 milioni di cittadini. In seguito alla Shoah e poi alla sostituzione della lingua ebraica, che fu riattivata come la lingua ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948, e inoltre, essendo stata anche negata come lingua parlata dagli ebrei nella URSS comunista, dove il patrimonio culturale Yiddish venne ridimensionato nella sua importanza e poi nel 1952 tutti gli scrittori furono fucilati, tutto ciò minacciò la sua estinzione. Durante il periodo della Shoah, si sviluppò una straordinaria letteratura memorialistica in Yiddish.
Nella Varsavia occupata dai nazisti vi furono importanti documenti storici e letterari, in archivi clandestini, e nello stesso periodo sorsero scrittori e poeti che hanno prodotto, in condizioni estreme e rigide, opere di grande drammaticità. Negli anni 1940, l’Yiddish venne introdotto per la prima volta come materia di studio anche in alcune Università Statunitensi e nel 1952 fu introdotta anche all’Università di Gerusalemme come una seconda lingua, ma oggi è parlata unicamente da 2 milioni di persone e purtroppo il numero tende a diminuire. Nonostante tutto, l’Yiddish continua a mantenere un ruolo importante per l’identità religiosa degli Askenaziti e per la trasmissione culturale in ambienti di tradizionalismo rigoroso sempre di origine Askenazita sia in Israele che negli Usa e nei Paesi dell’ex Unione Sovietica.
Inoltre, bisogna menzionare anche la musica Yiddish e Cracovia, ancora oggi, resta il centro della musica Klezmer, suonata da musicisti ebrei dell’Europa centro-orientale con elementi di folclore tedesco, polacco, ungherese e romeno, includendo anche antichi canti e preghiere ebraiche. Musica suonata soprattutto da piccole bande destinate principalmente alle danze e alle feste, ma anche a momenti più rituali come i matrimoni. Anche l’umorismo Yiddish delle novelle e romanzi descrive la vita degli Ebrei nei piccoli villaggi detti “Steithel”, villaggi dove viveva una grande maggioranza del popolo ebraico dell’Europa orientale e di quelli emigrati dalle grandi città industriali, già per motivi di repressione. L’Yiddish ritrova anche la sua espressione idiomatica non solo nella produzione poetica e teatrale ma anche nella pittura; la famiglia hassidica viene raffigurata, per esempio, dal pittore Marc Chagall che coi suoi colori e il suo pennello dipinge la tradizionale famiglia ebraica della sua cittadina natale e dei piccoli “Steithel”.
Terminato il mio viaggio in Polonia mi sono recata a Napoli dove il 15 Settembre avevo la presentazione del mio libro “Un Askenazita tra Romania ed Eritrea” GDS Edizioni, organizzata dall’Associazione Italia-Israele assieme alle Associazioni Culturali “Rosa Bianca”, “Donne a Testa Alta” e altre. Il mio libro, già dal suo titolo, riporta la parola “Askenazita”, con riferimento alla vita di mio padre e della mia famiglia svoltasi tra la Romania e l’Eritrea. Per meglio mettere in risalto l’importanza della lingua Yiddish a casa nostra riporto alcuni frammenti dal mio libro. A pagina 84 scrivo “La differenza di età tra me e mia sorella Lisa era solo di un anno e due mesi, e si può dire che siamo state cresciute assieme: inseparabili fin dall’asilo inglese, e nello stesso banco quando arrivò il tempo delle elementari. Forse farci frequentare assieme la scuola è dipeso dal fatto che il nostro scarso livello di padronanza dell’italiano era simile. L’italiano, come l’inglese, erano lingue secondarie a casa, dove avevamo sempre parlato romeno con i genitori e con nonna Vittoria, o Yiddish, soprattutto con zio Boris”. A pagina 85 continuo “Mamma Ester, semplice e modesta, per noi era ed è rimasta la tipica Yiddishe Mame, come quella della famosissima canzone Yiddish che era tra le sue preferite. Nel testo mamma riconosceva sua madre Sabina, con la quale parlava solo Yiddish. Mamma canterellava spesso quei versi, forse per nostalgia: Ah! Yiddishe mame, mi man chi più che mai… Io per conto mio ci ho sempre riconosciuto mia mamma”. Alla fine della pagina scrivo “Lo Yiddish, che capivamo già da bambine, ci riporta sempre ai nostri genitori. Papà ci raccontava in quella lingua barzellette che avevano sempre una morale profonda e molto ebraica”. Per concludere, a pagina 87 scrivo “Dopo il trasferimento in Israele tante cose sono divenute più concrete, e ne scrivevamo nelle nostre tante lettere. Papà, che soffriva di nostalgia per la nostra lontananza, ci chiamava ‘Papirene Kindern’, ‘Figlie di Carta’, come il titolo della poesia Yiddish Mia mamma mi ha scritto una lettera: Jankale, figlio mio, hai Dio nel cuore. Tu sei il maggiore dei miei quattro figli. Vedo te con tutti gli altri e questo allevia il mio dolore… È triste essere sola e il mio cuore anela a voi. Ma avete dimenticato la mamma. Ora prego Dio che vi perdoni. Una cosa però figli miei, dovete ricordare: quando morirò, prima o poi, ricordate la mamma, e dite il Kaddish in suo ricordo…
Quando papà veniva in Israele, io mi lamentavo con lui della lontananza e della nostalgia. In molte lettere sottolineava che era lui ad essere preso dalla nostalgia per noi figlie, e ci scriveva: “Voi ora siete per me ‘Papirene Kindern’. Dobbiamo continuare a scriverci lettere e tenerci in contatto. Voi ad Asmara non avete ragione di tornare e nulla da rimpiangere…”. Concludo sperando che il mio messaggio sulla lingua Yiddish sia stato percepito dal pubblico come una parte integrante ed importante della mia vita in una splendida famiglia ebraica askenazita di origini romene, che ha vissuto per 27 anni all’Asmara in Eritrea, in una società ebraica sefardita-arabofona e che si è adattata a vivere e praticare l’ebraismo in questa comunità ebraica locale con un idioma diverso, con usi e costumi ben differenti dai nostri, ma con la stessa fede religiosa, che alla caduta dell’impero etiope ha riportato tutti noi a trasferirci e vivere in Israele.