di Francesca Olga Hasbani
E’ stata una serata piacevole e animata, con un pubblico attento e numeroso.
“Alla scoperta della stampa ebraica. Contributo ai 150 anni di storia d’Italia”, la conferenza organizzata dalla Fondazione del Corriere della Sera lo scorso 15 settembre, è stata sotto molti aspetti una piacevole sorpresa. Per il tema, insolito, poco noto al di fuori degli ambienti degli addetti ai lavori, per lo sviluppo di un dibattito che ha portato alla luce questioni e problemi fondamentali per chi come noi fa un giornale ebraico, e sui quali raramente si ha occasione di confrontarsi.
Divisa in due parti, la serata ha offerto sia una ricostruzione di tipo storico sui caratteri e l’evoluzione della stampa ebraica, dei suoi “produttori” e lettori; sia un dibattito sullo stato attuale e le prospettive future dei giornali ebraici.
Anna Foa e Liliana Picciotto, con le loro relazioni, hanno introdotto e presentato il mondo dei giornali ebraici dal Risorgimento al secondo dopoguerra. Foa si è soffermata più a lungo sul percorso identitario degli ebrei italiani dal periodo post-emancipatorio fino alla seconda metà del Novecento. Divisi fra tradizione, modernizzazione e integrazione, fra patriottismo, nazionalismo e sionismo, gli ebrei italiani, dopo la seconda guerra mondiale, quando più forte è stato il pericolo di una rottura definitiva con l’Italia, sono riusciti, secondo Anna Foa, a trovare e ad esprimere – anche attraverso i loro giornali – una via italiana di convivenza piena ed armonica fra ebraismo e cittadinanza – cosa che li ha distinti e tuttora li distingue dagli ebrei del resto d’Europa.
L’intervento di Liliana Picciotto si è concentrato maggiormente sui giornali, sulle testate che più di altre – vuoi per la durata, per l’autorevolezza delle firme, per diffusione – hanno segnato la storia del giornalismo ebraico italiano, segnalando fra essi analogie da un lato e specificità dall’altro. Ha illustrato il carattere e il significato del termine “israelitico” così ricorrente nei titoli delle testate ottocentesche, per passare poi a spiegare l’influenza esercitata dal sionismo, come idea e come movimento organizzato, nella vita degli ebrei dei primi due decenni del Novecento. Influenza che ha portato alla nascita di varie testate fra cui le più note e rilevanti sono senz’altro “L’Idea sionista” nata a Modena nel 1901 e poi soprattutto, il fiorentino “Israel” nato nel 1916 per iniziativa di due personalità di primo piano dell’ebraismo italiano come Alfonso Pacifici e Dante Lattes. L’esperienza fascista, ha ricordato ancora Liliana Picciotto, ha toccato anche la stampa ebraica che con la “La nostra bandiera” del torinese Ettore Ovazza, ha dato voce a quegli ebrei che subirono, come buona parte degli italiani, il fascino di Mussolini e del fascismo. Dopo il silenzio imposto nel 1938 dalle leggi antiebraiche, la stampa ebraica riprende nel dopoguerra con una fisionimia del tutto nuova, effetto evidente della tragedia appena vissuta. Israele e la Shoah diventano via via le questioni cardine del dibattito ebraico degli anni ’50, ’60, ’70. Israele specialmente, che, dice Picciotto, per quelli della mia generazione è stato quasi un “tormentone”. Cambiano i temi ma cambia anche la tipologia dei giornali. Non più frutto dell’iniziativa e dell’energia di singole personalità come era stato fino alla prima metà del Novecento, ma espressione e voce quasi sempre delle varie comunità come dei movimenti e delle organizzazioni politiche e culturali che via via si formano dal secondo dopoguerra in avanti.
L’intervento di Laura Brazzo è stato volto invece a spiegare soprattutto gli scopi e l’impostazione della mostra che lei stessa ha curato per la Fondazione CDEC, esposta per tutto il mese di settembre presso la Biblioteca Sormani di Milano, e dedicata proprio alla stampa ebraica dall’Unità ai giorni nostri (“Una storia di carattere. 150 anni di stampa ebraica in Italia”).
Laura Brazzo in particolare ha ricordato come alla base della mostra ci fosse l’idea non tanto di presentare una rassegna di copertine, quanto piuttosto di raccontare la storia d’Italia, nei suoi momenti topici, attraverso gli articoli pubblicati dai vari giornali ebraici – una storia diversa, ha detto, da quella che si potrebbe ricostruire attraverso le prime pagine, per esempio, del Corriere della Sera.
Se Liliana Picciotto ha messo in luce come da qualche decennio ormai gli studiosi ricorrano ai giornali ebraici come ad una fonte attraverso cui ricostruire la storia degli ebrei in Italia, le loro opinioni e posizioni, i mutamenti ed evoluzioni dell’ebraismo italiano, Laura Brazzo ha sottolineato come l’intenzione alla base della mostra, fosse quella di capovolgere questa visuale. I giornali infatti, ha ricordato ancora Brazzo, sono stati utilizzati in questa mostra per “raccontare” come gli ebrei hanno vissuto giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, le vicende che, grandi o piccole, hanno segnato la vita del paese e di conseguenza, le loro vite. Con esiti in molti casi inattesi, altre volte invece scontati.
Il tema però che a nostro avviso ha costituito il vero filo conduttore dell’intera serata, è stato quello del rapporto fra i giornali ebraici e i suoi lettori. O meglio ancora, delle finalità proprie che muovono alla realizzazione di un giornale ebraico in quanto tale. A chi si rivolge? A chi parla il Bollettino della Comunità di Milano, Pagine Ebraiche, Hakeillah o il redivivo Hatikwa?
Su questo punto sono emerse opinioni diverse, a cominciare da quella già menzionata nel discorso di Laura Brazzo – e in misura minore, anche di Anna Foa e Liliana Picciotto. Secondo Brazzo infatti sembrerebbe che i giornali ebraici, specialmente quelli del passato, si siano rivolti essenzialmente ad un pubblico ebraico.
Il dibattito fra Diwan, Kahn e Vitali – rispettivamente direttori del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, di Shalom, e di Pagine Ebraiche – ha fatto emergere una tendenza oggi, che va in una direzione se non opposta, quasi. Guido Vitale ha sottolineato come il suo giornale sia pensato innanzitutto per un pubblico non ebraico, anzi addirittura ha sottolineato con una certa ironia come il lettore ebreo di Pagine ebraiche sia più che altro “tollerato”. Anche Giacomo Kahn ha sostenuto la necessità per un giornale come “Shalom” di rivolgersi ad un pubblico eterogeneo. Se così non fosse, ha aggiunto, faremmo un lavoro per certi aspetti persino anacronistico e in fondo inutile. Fiona Diwan per parte sua ha assunto una posizione intermedia, sottolineando come a suo parere lo scopo primo che deve muovere la redazione di un giornale ebraico, sia quella di costruire un dialogo continuo, costante con la società. Il giornale ebraico deve parlare degli ebrei come parte della cittadinanza tutta, e non come espressione di un mondo a sè stante. Il dialogo, l’interazione fra ebrei e società, il dibattito interno anche alla luce di ciò che accade nel paese, all’esterno delle comunità, sembra essere per la Diwan il vero obiettivo e la prospettiva a cui un giornale ebraico deve mirare, oggi come per il futuro. E aggiunge: “Se noi pensiamo di rivolgerci alla società civile con un ebraismo da vetrinetta, con un ebraismo da argenteria che lucidiamo per far vedere agli altri quanto siamo belli, io credo che questa sia un’operazione sterile”.
Ci pare, senza timore di sbagliare, che le pagine del Bollettino riflettano appieno questa visione.