di Sofia Tranchina
L’evento conclusivo della GECE è una perfetta introduzione alle festività ebraiche di Rosh HaShanà e Yom Kippur. Le oratrici Micol Nahon e Anna Arbib hanno sviscerato alcuni dei temi fondamentali racchiusi nell’atto rituale del mikveh, l’immersione in acqua naturale con cui ci si purifica, comparandoli con i giorni di preparazione alle festività. Ci sono diverse occasioni legate al mikveh, ma quella principale è la purificazione dalla “impurità” che segue il ciclo mensile delle donne. Il mikveh rientra infatti nella mitzvah di Taharat Hamishpacha (santità familiare), una delle tre mitzvot assegnate alla donna insieme a quella di accendere i lumi di Shabbat e di fare hafrashas challah (prelievo di una parte dell’impasto del pane del Sabato).
Il termine “impurità” è controverso e complesso, in quanto si riferisce a un livello spirituale e non materiale, in relazione alla contrapposizione tra vita e morte. Come la morte è impura in quanto ci impedisce di compiere le mitzvot, così il ciclo mensile delle donne porta a impurità in quanto manifesta il mancato concepimento.
Per questo, le donne sposate devono immergersi in un’acqua purificatrice ogni mese prima di coricarsi nuovamente con il marito. La separazione tra i coniugi durante il ciclo e il riavvicinamento dopo il mikveh è un atto di rinnovamento della relazione.
Ma l’acqua non dev’essere acqua qualsiasi: infatti ci sono molte regole che determinano la kasherut di un mikveh. Innanzitutto, l’acqua non deve essere stata trasportata in un catino o altro strumento umano, ma deve essere giunta nella vasca in modo naturale. Il mikveh è infatti paragonato allo Shabbat: si restituisce il mondo al Signore. Inoltre, «l’immersione totale nell’acqua assomiglia all’immersione sabbatica nella Torah», spiega Anna Arbib.
Un’altra caratteristica costruttiva è degna di ricevere particolari attenzioni: la vasca non deve riportare nemmeno il più piccolo dei fori. Anche se l’acqua fosse piovana e sufficiente all’immersione totale del corpo, e il foro non recasse dunque alcuna perdita sostanziosa, il mikveh non sarebbe più kasher. Questo si può interpretare con una metafora in cui l’acqua sarebbe il nostro ebraismo: «ci potrebbe sembrare che perdere un po’ di ebraismo, di attaccamento alla Torah e ai precetti, non sia niente di grave. Tuttavia, un piccolo allontanamento può portare a una degenerazione progressiva fino alla totale perdita di identità ebraica. Una trasgressione porta a un’altra, e un foro si può allargare. Meglio che non ci siano fori».
Una cosa interessante dal punto di vista numerico, è il volume d’acqua necessario a fare un mikveh: 40 seah d’acqua. Quaranta è infatti il numero del rinnovamento e della purificazione nell’ebraismo: 40 furono i giorni del diluvio universale, 40 i giorni passati da Mosè sul monte Sinai per rinnovare il patto con il Signore, e 40 gli anni di peregrinazione del popolo di Israele nel deserto.
Inoltre, è interessante notare che il numero 40 è indicato nell’alfabeto ebraico dalla lettera “ם” (mem) che rimanda all’acqua (מים) e al suo scorrere.
Riguardo al mese corrente, gli ebrei recitano le selichot (suppliche) per tutto il mese di Elul, 30 giorni, in preparazione a Rosh Hashana, e poi osservano altri 10 giorni di preparazione fino a Kippur. In totale, vivono 40 giorni di riflessione sull’anno passato, 40 giorni di teshuva, purificazione e rinnovamento.
Questa costante capacità del popolo ebraico di rinnovarsi è il motivo per cui Israele è comparato alla Luna, che a ogni ciclo lunare si rinnova.
Una caratteristica importante della teshuva è infine che non può essere affrettata: non ci si può infatti tuffare nella vasca del mikveh. Ci si entra con consapevolezza, un passo per volta.