Moked 2013/ Bilancio di tre intensi giorni

Feste/Eventi

di Ilaria Myr

È stato un Moked molto ricco quello che si è svolto quest’anno nella consueta cornice di Milano Marittima, fra il 25 e il 28 aprile. Un appuntamento intenso, che ha fornito ai circa 400 partecipanti interessanti spunti di riflessione sui numerosi temi “caldi” che interessano da vicino l’ebraismo italiano di oggi. Nuova la modalità di inserire, all’interno della tre giorni, il congresso Ucei, che ha riunito i 52 membri rappresentanti comunitari sotto la presidenza di Renzo Gattegna. «Quando nel 2010 è stata apportata la modifica allo Statuto, si è pensato che eliminare il congresso sarebbe stata una grave perdita – spiega Gattegna -. Da qui la decisione di inserire una norma che prevede la convocazione degli Stati Generali, come occasione aperta a tutti per dibattere delle questioni di interesse generale e per formulare indirizzi programmatici».

Il significato di comunità, la famiglia e l’educazione ebraica, la comunicazione, e il rapporto fra rabbini e comunità: questi i numerosi temi affrontati nelle diverse sessioni, che hanno visto l’intervento di numerosi esponenti dell’ebraismo italiano.

Il senso di Comunità

È il primo argomento emerso con forza dalla ricerca socio-demografica sull’ebraismo italiano condotta e presentata personalmente dal prof. Campelli: un’indagine ampia, che ha messo in luce diversi aspetti, fra cui una forte volontà di appartenenza e partecipazione anche da parte di chi di fatto non si fa coinvolgere (vedi notizia). Se, da un lato, la troppo breve spiegazione non ha forse fatto capire ai presenti la giusta portata dello studio e nel dettaglio le sue implicazioni per la comprensione del panorama ebraico contemporaneo, è indubbio che essa ha avuto il merito di aprire una importante parentesi di riflessione su quali siano i sentimenti, spesso contrapposti, che vivono in una comunità ebraica. Molto interessanti – soprattutto per un pubblico composto da dirigenti comunitari –  le considerazioni certo non lusinghiere sulla leadership politica della Comunità, sentita dal 33,5 % come un aspetto molto negativo, per vari e differenti motivi tutti riconducibili all’autoreferenzialità dell’istituzione.

Di tutt’altro genere sono, invece, le riflessioni suscitate dall’intervento di Clive Lawton, il “guru” inglese del dialogo interno all’ebraismo, inventore del rivoluzionario format Limmud (vedi notizia). Grazie alle sue analisi del concetto di Comunità ebraica nelle diverse zone del mondo, è riuscito a focalizzare l’attenzione su quanto il concetto stesso di “comunità”, in cui convivono senso collettivo e identità religiosa, sia oggi difficile da trovare. Perché, in questa accezione, la comunità è di per sé pluralista, in quanto accoglie persone con posizioni e convinzioni diverse. Per questo, i pochi Paesi – Italia in testa – in cui vige questo pluralismo di idee all’interno dello stesso ambito devono lottare con orgoglio per continuare a esistere come tali.

Famiglia ed educazione

Durante la prima giornata di lavori si è parlato anche di due dei temi che stanno molto a cuore a una comunità ebraica: l’istituzione della famiglia e l’educazione ebraica dei giovani.

Interessanti, a questo proposito, le testimonianze di due rappresentanti di comunità piccole, Modena e Trieste. Rav Beniamino Goldstein, rabbino capo della città emiliana, ha raccontato come la sua comunità, composta da circa 100 persone, abbia deciso di reagire alla mancanza sempre più grande di giovani e giovanissimi, finanziando in toto una giovane famiglia israeliana con bambini. «Grazie a loro, siamo riusciti a ricostruire un Talmud Torà – ha spiegato -, ma, soprattutto, abbiamo dimostrato che è possibile per dei giovani costruire e crescere una famiglia ebraica, anche in una piccola realtà di provincia come Modena».

Un altro esempio di sforzo – in questo caso molto discusso e sofferto – per mantenere viva una piccola comunità a rischio è quello di Trieste: fiorente centro ebraico fino a poco dopo la seconda guerra mondiale, vive una decrescita della sua comunità, fino al punto di arrivare ad avere una scuola in cui si fatica a costituire delle classi per la scarsità di alunni.

«Abbiamo quindi fatto, a metà degli anni ’80, un’assemblea comunitaria per sapere se aprire la scuola ai goiym o se invece chiuderla – ha spiegato Jacov Belleli, assessore al culto -. E’ stata una riunione molto accesa, che si è conclusa con la decisione di accettare di anno in anno un numero di esterni che permetta alla classe di avere almeno cinque bimbi, che devono però accettare in tutto e per tutto il metodo educativo ebraico, con le preghiere e tutto il resto. All’epoca mi misi a ridere: dove  troveremo persone disposte a ciò? 26 anni dopo ogni anno mi chiedo la stessa cosa, ma vengo sempre smentito». Il percorso inizia dal nido, molto apprezzato nella città: durante gli anni, viene verificato con la famiglia se esiste la possibilità che proseguano poi la carriera scolastica nella scuola elementare. I dati parlano chiaro: la quasi totalità  dei bambini che si iscrivono alla scuola  la frequentano fin da quando avevano pochi mesi. Curioso, poi, è il fatto che la maggior parte dei bambini non ebrei che decidono di frequentare la scuola ebraica siano figli di poliziotti che, fornendo la sicurezza all’istituto, lo conoscono bene e lo apprezzano. «L’apertura della scuola ebraica all’esterno, da un lato, aiuta la comunità a mantenere viva la sua scuola e, dall’altro, aiuta anche i bambini – ebrei di madre o solo di padre – a mantenere vivo il proprio ebraismo. Il messaggio che volgiamo dare, soprattutto alle piccole comunità ebraiche, è chiaro: non dovremmo neanche iniziare di pensare di chiudere le scuole ebraiche. Dobbiamo, invece, fare di tutto per tenerle in vita e anche aprirne di nuove, perché è quello il futuro».

D’altra parte, la questione dell’educazione ebraica pone in primo piano una domanda enorme: quale ebreo si vuole formare? Difficile rispondere, anche per Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano, che citando Rav Soloveitchik, distingue due approcci all’identità ebraica, due “patti” che l’ebreo stipula con D-o. «C’è il Brit Goral, il “patto della sorte”, che è l’appartenenza al polo senza scelta e senza un obiettivo preciso, e che nella conversione è rappresentato dalla milà – ha spiegato Rav Arbib -. E c’è il Brit Yehud, in cui, al contrario del primo, ci si pone delle domande. Ecco, l’educazione ebraica deve tenere conto delle due appartenenze all’ebraismo. Non ci si può convertire, accettando di rispettare le mizvot, senza però sentire l’appartenenza al popolo ebraico, e viceversa. L’educazione deve dunque trasmettere ai giovani i due patti, con un’attenzione particolare al Brit Yehud, che dà il senso del percorso che si vuole intraprendere».

Interessanti, sempre in materia di educazione, anche le osservazioni sorte dalla platea, come l’appello di Riccardo Pacifici a un impegno concreto dell’Ucei in sostegno delle realtà scolastiche ebraiche a rischio di chiusura, così come l’idea, portata avanti dalla Commissione Scuola dell’Unione, di una proposta educativa ebraica applicabile a livello nazionale.

Rabbini e comunità: quale rapporto?

Infine, durante la seconda mattina del Moked, si è parlato della relazione fra comunità e autorità religiose: argomento anche questo, come quello dei leader politici comunitari, sollevato in modo spesso poco lusinghiero all’interno della ricerca di Campelli. A confrontarsi sul tema Rav Aharon Locci, Anselmo Calò e Rav Alberto Somekh, coordinati da Daniele Bedarida. Ne è emerso un panorama molto vario e composito del rabbinato italiano, composto da circa 40 rabbini iscritti all’Assemblea. «Delle 21 comunità ebraiche, però, 6 non hanno una presenza rabbinica fissa – ha spiegato Rav Aharon Locci -, 3 hanno l’ausilio di un rabbino di riferimento, mentre in altre 6 si reca periodicamente un rabbino. 3 hanno un rabbino insignito della nomina fuori dall’Italia, altre 6 dal Collegio rabbinico e 3 dalla Scuola Margulies. Da questo quadro si capisce quanto l’Italia rabbinica sia frammentata. La questione di fondo, però, è quale condotta debba avere un rabbino: e i Testi ci dicono che deve essere “giudice e questore”. Un rabbino deve cioè essere in grado di mettere dei paletti». Il compito dell’Unione, dunque, è quello di aiutare a fare sì che ogni comunità debba avere il suo Rav e ne garantisca la possibilità di svolgere le proprie competenze.

Ma quale rapporto deve avere il rabbino con l’istituzione della comunità? Egli ne è un dipendente da qualche punto di vista? «Per tutte le attività che un rabbino svolge non ci può essere dipendenza, l’unica possibile è quella della Torà -, ha asserito Rav Locci -. Certo, il Rav deve avere il consenso della comunità, altrimenti i suoi insegnamenti cadrebbero nel vuoto. Ma l’amore deve soprattutto partire dal Rav per la Comunità».

Ecco dunque sul tavolo un tema di rande importanza, quello del difficile tema del rapporto fra verità  consenso: su questo si è espresso Rav Somekh, che ha raccontato la storia di Rabbà bar Nachmani, uno dei più grandi Amoraim di Babilonia, che, pur essendo un grande esperto di Halachà, non era amato dai concittadini. Costretto a scappare a sgeuito di una denuncia, si ammalò e morì. Chiamato poi da D-o in cielo per risolvere una controversia con le anime della Yeshivà Shel Malah, Rabbà si espresse a favore di D-o, sebbene fosse in minoranza. «Non è dunque vero che la verità coincide con il consenso – ha commentato Rav Somekh -. E oggi cosa succede quando spesso la società esige dalla Torà delle aperture che non può dare? Siamo sicuri che quando le nostre fonti parlano di maggioranza alludano al consenso popolare  e non, piuttosto, a qualcosa di più ristretto?».

Queste dunque, le voci di due esponenti del rabbinato, a cui si sono aggiunti i punti di vista più “laici” di altri esponenti comunitari. Anselmo Calò, consigliere Ucei da Roma, ha sottolineato come, nonostante la sua famiglia avesse un livello di osservanza delle mizvot molto basso, ci fosse comunque un forte senso di identità ebraica tale da portare i propri figli al talmud Torà. «La comunità ebraica romana e in generale quella italiana è tradizionale. E questo emerge anche dalla ricerca del prof Campelli: anche chi si dichiara non osservante pretende una comunità ortodossa. Di questo non si può non tenere conto».

Più acceso, invece l’intervento di Riccardo Pacifici, che ha espressamente richiesto al rabbinato un atteggiamento coerente, facendo espresso riferimento al caso di Milano, in cui al talmud Torà non sono stati ammessi bambini ebrei, il cui padre non è ebreo. «Ci vuole una posizione condivisa all’interno dell’ebraismo italiano», ha tuonato.

Italia vs Israele

Non poteva infine mancare una riflessione sul rapporto fra Italia e Israele, oggetto dell’ultima  tavola rotonda del Moked, in cui hanno partecipato Angelica Edna Calò Livne, ex schlichà dell’Hashomer Hatzair e fondatrice dell’organizzazione Beresheet La Shalom, Alessandro Luzon, consigliere UCEI e Presidente della Commissione Rapporti istituzionali, rapporti con Israele e Alyah, e Rav Pierpaolo Punturello. Alla coordinatrice del dibattito Claudia De Benedetti, consigliera Ucei, il compito d ripercorre l’importanza della figura di Teodoro Herzl, lo sviluppo del sionismo e la portata rivoluzionaria della fondazione dello Stato di Israele. Interessante il suo riferimento ai principi secondo i quali il grande intellettuale ebreo americano Mitchell Bard, direttore della Jewish Virtual Library, distingue oggi una persona che ama Israele per davvero.

Le delibere del Consiglio dell’Ucei

Per quanto riguarda la seduta del Consiglio, il fatto più importante è stata la votazione con cui i consiglieri hanno respinto le dimissioni di tre membri: Riccardo pacifici, Semi Pavoncello e Elvira Di Cave. In un’atmosfera molto accesa, sono emerse le non poche difficoltà di un Consiglio così esteso e diversificato al suo interno: fra divergenze ideologiche e forse anche contrasti personali, si è però riusciti, con la mite mediazione del presidente Gattegna, a provare a ricucire gli strappi, che avevano portato tre consiglieri a decidere di lasciare.

Non solo interesse

Durante il Moked non sono  mancati i momenti di divertimento: workshop di cucina, di danza e di sport hanno intrattenuto gli ospiti, così come numerose attività per i più giovani.

Nel pomeriggio di sabato, si è tenuta un’interessante conferenza su Lag Ba Omer e sul suo significato, e sul significato della ribellione. A parlarne, il Rabbino Pierpaolo Punturello, Clive Lawton, e Angelica Edna Calò Livne.

E poi la grande festa: in un concerto affolatissimo si sono esibiti Raiz, il cantante degli Almamegretta (di cui si è sentito parlare molto sui giornali durante il Festival di Sanremo, e che anche il Bollettino ha intervistato) e il gruppo fiorentino Enrico Fink Band. Fra canti e balli, si è dunque conclusa questa edizione del Moked, lasciando tanti interrogativi e domande nella testa di chi vi ha partecipato, ma anche tanti spunti da cui partire per fare ancora crescere l’ebraismo italiano.