di Sofia Tranchina
Il rabbino Alberto Moshe Somekh ha tenuto per Kesher una conferenza sui temi della sepoltura e della cremazione, riprendendo e approfondendo un capitolo del suo libro Essere Comunità. Infatti, in genere, quando si è chiamati ad affrontare i riti relativi al trapasso, «non sempre si ha la prontezza di spirito necessaria ad affrontarli nel modo corretto».
Mistero dell’Olam Abaa
Per quanto a tutti sia noto che la morte è un fatto certo alla fine del percorso di vita di ciascuno, nessuno sa in che modo la morte stessa sopraggiungerà, né quando; ma soprattutto, non ci è dato sapere in che cosa effettivamente consista. Non lo si sa, e non bisogna neppure cercare di scoprirlo, come spiega il rabbino: «HaKadosh Baruch’hu ha riservato per sé stesso tali questioni, affidando noi il compito di occuparci esclusivamente di questo mondo».
È raccontato nei midrashim che Rabbi Chisda, la cui generosità era impareggiabile, era talmente preso ad occuparsi dei bisognosi che l’angelo della morte non riusciva ad approcciarglisi. Questi, dunque, si travestì da umile servo e bussò alla porta del rabbino, il quale si affaccendò subito per soccorrerlo. L’angelo allora gli si rivelò mostrando la propria spada infuocata, e gli chiese: «perché dunque se sei gentile con tutti, fai penare tanto l’angelo della morte?». Rabbi Chisda, rendendosi conto di quanto stava avvenendo, si accinse subito a seguire l’angelo della morte. La morte viene quindi raccontata come atto di generosità: consisterebbe, infatti, nel «dare tutto ciò che si ha, senza avere nulla in cambio (almeno per il momento)». E la vita sarebbe quindi una «lunga preparazione al momento estremo, durante la quale ci si deve abituare a dare a chiunque, in qualsiasi occasione, senza richiedere alcuna ricompensa».
Tumà (impurità) e Kedushà (santità)
Vista come “perdita di vitalità” (ovvero perdita di ciò che è il massimo bene), la morte è definita con due attributi opposti l’uno all’altro, che scaturiscono in conseguenti azioni e precauzioni. Da un lato, è fonte di tumà, impurità, la stessa che laviamo via dalle nostre mani ogni mattina, quando l’anima ci viene restituita, con l’al netilat yadayim e l’abluzione rituale. Per questo motivo, ad esempio, nella tradizione ebraica non si conduce la salma in sinagoga come è fatto in altri culti, perché questa è appunto impura. Altrettanto, non è buona cosa che una donna in stato interessante si rechi presso un cimitero. Inoltre, in quanto il defunto è per forza di cose libero dai precetti, non ha più la possibilità di acquisire meriti (e per questo è importante che si faccia del proprio meglio mentre si è in vita). A riconferma di tale esenzione, il defunto viene vestito con abiti composti di lana e lino insieme, cosa normalmente vietata dai precetti ebraici, e viene avvolto in un tallit dal quale viene rimossa almeno una delle tziziot (le frange).
Dall’altro lato invece, la salma ha una sua intrinseca kedusha, santità, e per questo la sua dignità viene protetta con tre divieti. Il primo divieto è quello di niwwùl ha-mèth, sezionamento del cadavere, ovvero di compiere qualsiasi prassi che vada a ledere l’integrità del corpo, inclusi gli interventi autoptici. Il secondo è di hana’ah min ha-mèth, uso proficuo della salma, dalla quale non si può tratte vantaggio alcuno. Il terzo divieto è di halanàth ha-mèth, pernottamento della salma, la quale non va lasciata insepolta la notte ma bensì va sepolta al più presto e persino nella giornata stessa del decesso, laddove possibile.
Dal decesso alla sepoltura
La prima cosa da fare immediatamente dopo il decesso, è domandare perdono al defunto «per gli eventuali sgarbi rivoltigli in vita».
Poi, vengono chiamati gli addetti della Chevrà Kadishà (Confraternita Sacra), l’istituzione che prepara la salma per la sepoltura. Costoro si occuperanno di chiudere gli occhi e la bocca al defunto (il quale, è credenza, «assiste a delle visioni particolari che non dobbiamo turbare»), e di coprirne interamente la salma con un lenzuolo, compreso il volto, che non dovrà essere scoperto se non per necessità mediche e per la lavanda e vestizione. Il talmud identifica le origini di tale uso in tempi antichi in cui i poveri si vergognavano dei segni della fame lasciati sui volti, che dunque coprivano nei parenti defunti. Per rispetto, si stabilì allora che anche alle persone abbienti venisse coperto il volto. Ciò è fatto anche affinché le sembianze della persona cara vengano ricordate come erano in vita e non se ne profani la dignità. Dopodiché la salma va spogliata degli abiti e adagiata sulla nuda terra – che essendo fredda ne ritarda la decomposizione in attesa della sepoltura – con i piedi simbolicamente rivolti verso l’uscio. Infine, viene attuata la purificazione del defunto, tahara, con la lavanda della salma: maavar yabok (così come viene fatta per i bambini che entrano nel mondo, viene fatta per chi lascia il mondo). Si accende dunque un lume di candela vicino al capo, mantenuto acceso (o sostituito) fino a sepoltura avvenuta e poi per tutta la durata della shiva, i sette giorni di lutto. Si coprono inoltre gli specchi e ogni superficie riflettente per i sette giorni, perché le tefillot, spesso recitate in casa del defunto, non vanno recitate davanti a immagini (anche riflesse), e anche perché gli specchi simboleggiano la vanità umana. Si versa infine tutta l’acqua destinata ad usi alimentari che era contenuta in vasi o recipienti aperti nella casa in cui è avvenuto il decesso, e nelle due case adiacenti qualora abitate da ebrei, per evitare che venga contaminata dall’atmosfera della morte.
Viene dunque organizzata la shemira, la veglia della salma, perpetuata 24 ore su 24 fino alla sepoltura, svolta con la recitazione dei salmi (che inizia sin dagli ultimi istanti dell’agonia). Un tempo serviva per evitare che la salma venisse trafugata, ma rimane una grande mitzvah anche adesso e se i famigliari non se ne possono occupare viene incaricata una persona indigente della comunità. Al cospetto della salma è vietato mangiare, bere, fumare e compiere discorsi futili.
Le fasi del lutto
Inizialmente, i parenti stretti sono chiamati onenim. Gli onenim sono chiamati a occuparsi dell’onore del defunto al punto da essere esentati da molti precetti positivi. Indossano calzature di cuoio per provvedere alla sepoltura, non possono mangiare né carne né vino (alimenti di gioia). Dopo la sepoltura, vengono chiamati avelim, e sono in lutto. Possono mangiare carne e vino ma non possono uscire di casa né indossare scarpe di cuoio per sette giorni.
Pratiche ammesse e pratiche proibite
Riguardo l’eutanasia, si fa distinzione tra attiva (sopprimere attivamente la vita di un paziente) e passiva (sospendere determinati trattamenti terapeutici atti a tenere in vita artificialmente un paziente). Per quanto concerne quella attiva, in quanto il medico è autorizzato esclusivamente a migliorare la vita del proprio paziente e non a sopprimerla, questa è chiaramente proibita e condannata. In relazione alla seconda, questa è possibile purché non comporti che vengano negati al paziente le due cose necessarie alla sua sopravvivenza: nutrimento e ossigenazione.
Riguardo alla cremazione invece, la posizione dell’ebraismo è netta: «questa prassi contrasta con la netta intelligenza, con gli usi del popolo ebraico, e con i precetti della Torah». La cremazione è senza dubbio nata come un uso pagano degli emorrei (antichi cananei) e dunque antigiudaica: costituisce infatti una soluzione contraria a usi e costumi ebraici, oltre ad essere percepita come una forma di mutilazione del cadavere, cosa espressamente vietata dalla Torah. La sepoltura della salma è inoltre un’importante mitzvah, non sostituibile con la sepoltura delle ceneri; allo stesso modo, il Sefer Torah quando è usurato e inutilizzabile viene sepolto anziché distrutto. Questo perché nel versetto «polvere sei e alla polvere tornerai», s’intende che l’uomo deve tornare nella terra, dalla quale può germogliare una nuova vita, laddove invece le ceneri non germogliano affatto. Un midràsh narra infine che un faraone si sarebbe fatto cremare al fine di evitare il Giudizio Divino: la cremazione è perciò considerata un deliberato atto di spregio nei confronti della fede nella Giustizia Divina.