di Ester Moscati e Ilaria Myr
Il dialogo ebraico secondo Ugo Volli e Vittorio Robiati Bendaud
C’è Abramo che discute con l’Onnipotente, a proposito della distruzione di Sodoma e Gomorra. C’è un Mosè recalcitrante che dialoga con Dio nel roveto ardente. C’è Giobbe che interroga il cielo e dialoga sul perché del Male. A partire dalla Torà e poi nel Talmud e nella letteratura ebraica odierna, che significato ha il dialogo nell’ebraismo? Risponde il volume Discutere in nome del Cielo (Guerini e Associati editore), firmato da Vittorio Robiati Bendaud e Ugo Volli, in uscita a metà settembre.
In dialogo, partendo da ciò che si è
Dice Vittorio Robiati Bendaud: «Per una comprensione del dialogo nella tradizione ebraica si deve partire dalla Genesi, con l’incomunicabilità tra Adamo ed Eva e con un dialogo primordiale, dagli esiti nefasti, cioè il dialogo tra Caino e Abele, che sappiamo esserci stato ma che non viene riportato. Un dialogo che conduce all’omicidio: questo è già significativo del fatto che il dialogo non sempre ha un esito pacificante, però possiamo anche dire che dove finisce la parola inizia la violenza». Quella prima contesa ha portato alla morte di Abele. I rabbini si sono interrogati su quale fosse la natura di quel dialogo: poteva essere basato su una vertenza di tipo economico e sul possesso, con la concorrenza tra i sistemi sociali dell’agricoltura e della pastorizia, oppure poteva essere – come hanno concluso alcuni maestri – un dialogo di natura religiosa, perché la questione da cui parte la discussione tra i due fratelli è appena successiva all’offerta sacrificata a Dio. Il primo ad aver portato sacrifici era stato Caino, che aveva offerto i prodotti della terra, essendo un agricoltore; mentre Abele, che era un pastore, aveva sacrificato un agnello. Però l’offerta di Abele veniva gradita dal Signore, mentre quella di Caino no.
«La discussione in merito all’offerta sacrificale può essere definita come una disputa religiosa, che da discussione si fa scontro feroce: c’è una divisione tra i due fratelli, nel crinale tra somiglianza e diversità, una divisione che poi porterà all’omicidio. Secondo il Midrash Rabbà tra i due vi fu una discussione sul ‘campo’ dove era stato eseguito il sacrificio, ma questo campo, a detta del commento, è quello dove verrà costruito il Beth Hamikdash: la discussione quindi non è solo religiosa in senso lato, ma anche specifica sul ruolo di Israele nella Storia. Possiamo trarre da questo l’insegnamento che il ‘dialogo’, la contesa (machloquet), la discussione su questioni religiose può essere motivo di guerra; può far degenerare la situazione e portare a una dimensione di contrapposizione e a volte anche di violenza non ricomponibile».
Quindi, secondo l’autore, il dialogo non è necessariamente qualcosa di positivo o addirittura “esorcistico”, e negarlo non è affatto sano. Il dialogo storicamente ha riguardato, sin dai secoli più remoti, il rapporto tra l’ebraismo e “l’altro da sé”, prima con i cristiani e poi con l’Islam. Il primo testo cristiano di questo tipo, ancora prima di Agostino e di Tommaso, è il Dialogo con Trifone di Giustino, un filosofo di famiglia pagana, nato a Nablus e convertito al cristianesimo, ambientato attorno al 135 ev: quindi, è un dialogo che avviene in un momento in cui l’ebraismo è sconfitto da Roma, disorientato, completamente allo sbando. «In questo dialogo – racconta – Giustino, pur sotto forma di dialogo e di formale cortesia, se la prende con gli ebrei in modo molto violento. La storia ci farà poi conoscere vescovi e altri personaggi della cristianità che scrivono dialoghi in cui vengono poste le basi dell’antigiudaismo cristiano e, tramite l’antigiudaismo cristiano, certi temi passeranno poi nell’Islam. L’ebreo traditore, che rompe i patti, assassino dei profeti, lo ritroviamo nel Corano, ma viene ripreso pari pari dai testi antiebraici cristiani».
Il primo dialogo, invece, scritto da un ebreo e coinvolgente cristiani e islamici è quello di Yehudà Halevì, Sēfer Ha-Kūzārī, che è stato scritto intorno al 1140, ed è un testo ispirato a un sentimento diverso, essendo in ampia misura “ad uso interno”, non avendo cioè l’intento di convincere nessuno ma di confortare gli ebrei e rinsaldarli nella loro fede, scritto in arabo. Nonostante le critiche rivolte, l’opera contiene un riconoscimento del valore di entrambe le religioni, cristiana e islamica, soprattutto in quanto portatrici nel mondo dell’idea monoteista. Siamo nell’epoca delle crociate e ci saranno altri Dialoghi scritti da cristiani in cui si delegittima la fede ebraica e gli ebrei stessi: tra i più noti, quello di Pietro Aberlardo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, scritto probabilmente a Cluny. Vi fu poi, con un diverso tenore, il Dialogo del Gentile con tre saggi di Raimondo Lullo.
Uno straordinario esempio di dialogo in età medioevale, reale e non letterario, che invece non è portatore di violenza ma di reciproco riconoscimento, è quello che scaturisce dall’amicizia tra Manoello Ebreo e Dante e che porterà il cristiano Dante ad avere, verso l’ebraismo, un atteggiamento originale. Con una doverosa accortezza: i rapporti tra Dante e gli ebrei suoi coevi, e in particolare Manoello, noi possiamo ricostruirli e ipotizzarli solo da tracce e frammenti, ancorché assolutamente solidi. «Nella Commedia non c’è una condanna globale del popolo ebraico, come invece chiaro dagli insegnanti della Chiesa, tanto è vero che nell’Inferno quegli ebrei presenti sono puniti per colpe individuali (come tutti del resto) e non come popolo e collettività. Lo stesso Giuda Iscariota subisce la pena di Bruto e Cassio, puniti per regicidio. Giuda per Dante è un regicida secondo il Diritto Romano, non un deicida come dice la Chiesa. Per l’epoca quella dantesca è una posizione unica e rivoluzionaria».
Unire e separare con le parole
«Nel pensiero ebraico, il tema del dialogo è importante e articolato, per niente banale – dice Ugo Volli -. Insieme a Vittorio Robiati Bendaud abbiamo provato a dare un contributo originale da un punto di vista ebraico, che ne riveli anche gli aspetti problematici». “La parola dialogos, voce tarda che si trova nel lessico greco solo a partire da Platone e Aristotele, indica dunque un logo-fra2, un logos diviso che al contempo unisce e separa: spesso è usato per nominare una ‘conversazione’ o un’‘udienza’. Il suo correlato dialoghé, a partire da Erodoto, vale ‘distinzione’, ‘separazione’; il verbo dialego significa anzitutto ‘scelgo’, ‘raccolgo’, ‘distinguo’, per diventare solo al medio dialegomai ‘converso’, ‘discuto’, ‘spiego’. Dato che leghein significa ‘mettere assieme’ e dià ‘separare’, sotto al concetto di dialogo vi è dunque un ossimoro fondamentale: unire dividendo, legare distinguendo, un ‘dire’ che sta in mezzo fra i parlanti, senza essere la parola propria di alcuno, una pratica sempre difficile e problematica”. Inizia così la trattazione di Ugo Volli intitolata Dialoghi, discussioni, interpellazioni sul dialogo nell’ebraismo dagli inizi fino alla modernità: un excursus filosofico in cui il semiologo affronta il concetto di dialogo nell’antica Grecia, nella Torà e nel Talmud, fino ai filosofi ebrei del ‘900.
«In una prima parte, viene analizzata la presenza di dialoghi nella Torà – spiega Volli a Bet Magazine/Mosaico -. Ci sono infatti diversi esempi di dialoghi fra esseri umani e divinità: da Adamo ed Eva passando da Abramo a Mosè, fino a Giobbe. In tutte queste narrazioni emerge un aspetto unico della religione ebraica: il rapporto molto forte dell’uomo con la divinità, che è in qualche modo di sfida morale, che la presenza divina pone agli uomini; una ‘messa a punto’ reciproca». Ancora più interessante è poi ciò che si trova nel Talmud, il libro per eccellenza delle discussioni. “Se i testi canonici della Bibbia sono in gran parte narrazioni o espressioni di ispirazioni profetiche – scrive Volli – l’oralità di questa nuova fase si sostanzia in discussioni, dissensi, scuole di pensiero che divergono, nuove proposte e interpretazioni che vengono discusse. C’è un nome ebraico per queste attività di dibattito: machloqet. Possiamo affermare che, dopo il dialogo con la divinità, interno alla narrativa biblica, questa è la forma più caratteristica e autentica di dialogo propria della cultura ebraica, tutt’oggi perdurante e fondamentale”. Celebre a questo proposito è il passo che dice “le machloqot fatte in nome del cielo (beshem shamaim) – che cercano onestamente la verità e il bene per il popolo ebraico – sono quelle che durano” (ad esempio la celebre discussione fra Bet Shammai e Bet Hillel), mentre quelle che non sono fatte beshem shamaim sono invece destinate a finire (come la contestazione a Mosè da parte di Korach).
«Caratteristico del Talmud è che vengono messe a confronto diverse persone di secoli differenti con un approccio che cerca di capire esattamente cosa dice ciascuno – racconta Volli -, tenendo presente che esistono delle regole su quello che si può affermare, che dipendono dall’adesione ai valori della tradizione».
Infine, nella terza parte l’autore affronta il concetto di dialogo così come è stato introdotto in filosofia da autori come Martin Buber, Emmanuel Levinàs e Franz Rosenzweig. Nel testo Volli si sofferma sulla critica di Buber, e soprattutto di Levinàs, alla tradizione filosofica europea di non essere dialogica. Per i due pensatori ebrei il rapporto fondamentale è quello fra due individui e la responsabilità reciproca che ne deriva. «La conclusione di questo mia trattazione è una: quello ebraico è il popolo del dialogo, perché ha sempre creduto nel dialogo fra esseri umani e nella responsabilità reciproca. E poi è noto: dialogare e anche discutere è molto caratteristico dell’identità ebraica».
In alto: Sacrificio di Caino e Abele, Giorgio Vasari