di Marina Gersony
Georges Bensoussan, classe 1952 è nato in Marocco e vive in Francia. Tra i più noti studiosi europei dell’antisemitismo e della Shoah, è impegnato su diversi fronti che vanno dalla scrittura (è autore di libri importanti, tra cui Il Sionismo, una storia politica e intellettuale, Einaudi; Genocidio, una passione europea, Marsilio; Israele, un nome eterno…, Utet) fino alla responsabilità editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi alla direzione della Revue d’histoire de la Shoah. Ospite del Festival di Cultura Ebraica, Jewish and the City, anticipa in questa intervista la sua riflessione sulle parole del Festival: “Liberazione e Libertà”, parole indissolubilmente legate al destino del popolo ebraico.
L’antisemitismo è più vivo che mai, in Francia, in Europa, in Medio Oriente e non ultimo in Nord Africa. Roman Polanski sta per girare un film paradigmatico sul famosissimo Affaire Dreyfus, dal romanzo di Robert Harris, un caso che divenne simbolo dell’odio nascente per gli ebrei e che riporta la questione in primo piano. Un ritorno quindi dell’antisemitismo, oggi come allora?
Indubbiamente c’è, in Francia e non solo. Non si tratta tuttavia del vecchio antisemitismo dell’Affaire Dreyfus, ma di qualcosa di molto diverso, un antisemitismo nuovo importato dalla popolazione di origine maghrebina che non sa nulla del passato. Non da tutta la popolazione, ma in gran parte. Succede in Francia, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Olanda e non solo, in tutti quei Paesi dove la presenza maghrebina è alta. Pensiamo solo a quanto è appena successo in Francia: il 12 luglio degli jihadisti, armati di spranghe di ferro e mazze da baseball hanno presidiato una sinagoga al grido minaccioso di: “Morte agli ebrei. Hitler aveva ragione”.
La Francia resta comunque un caso unico in Europa. È il risultato di un flusso migratorio venuto dal Maghreb e di un indebolimento dello Stato. Lo stesso fenomeno non si riscontra per esempio in Germania, dove ci sono molti turchi. Là invece, dove si registra una forte presenza maghrebina, si può star certi che l’antisemitismo è violento. Non è legato soltanto al conflitto arabo-israeliano, bensì alla tradizione culturale del Maghreb.
Attualmente ci sono molto ebrei nel Maghreb?
Non ce ne sono praticamente più, in tutto saranno circa 5.000, per due ragioni: la prima ragione, più superficiale e più accreditata, è a causa del conflitto arabo-israeliano che di fatto ha aggravato il problema. La ragione più profonda non ha tuttavia niente a che vedere con questo conflitto. Il problema esisteva già molto prima che si parlasse di antisemitismo e prima ancora dello Stato d’Israele. Soprattutto in Marocco.
Secondo lei l’odio nei confronti degli ebrei è in aumento in considerazione di quanto accade attualmente in Israele e a Gaza?
Aumenterà sempre di più. È evidente che quando Israele difende i suoi cittadini dai missili, l’antisemitismo si ripresenta ogni volta in modo estremamente violento. Va però precisato che l’antisemitismo ha due origini diverse: una è dell’estrema destra europea che si approfitta della popolazione araba per esprimersi apertamente. E poi c’è un antisemitismo di ultra sinistra che, celandosi dietro le critiche della politica governativa israeliana, nega in realtà il diritto allo Stato ebraico di esistere. E questo è ancora più grave.
Dunque, le radici dell’antisemitismo sono tre: l’estrema destra, l’ultra sinistra antisemita e la popolazione di emigrati soprattutto tra i maghrebini, ma non tutti. Ce ne sono alcuni che non sono antisemiti, bisogna dirlo. Sfortunatamente la loro voce non si sente mai, nessuno li ascolta, nessuno li vede per strada. Tra loro ci sono alcune persone che si espongono pubblicamente, sono molto coraggiose, ma purtroppo non sono numerose e rimangono inascoltate. Ci si aspetta che qualche intellettuale arabo maghrebino alzi la voce e si rivolti contro questo antisemitismo radicato nel più profondo dello spirito.
Le nuove generazioni, grazie a una maggiore cultura, saranno più pronte a lottare contro i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti degli ebrei?
Ci sono ambiti della società in cui il livello medio culturale è in aumento; allo stesso tempo assistiamo a un “acculturamento” generale grazie a Google e Internet. Tuttavia non sono per niente convinto che ci siano generazioni più colte: al contrario, penso che lo siano di meno. Cosa sta accadendo? Che ci sarà un’élite più raffinata, che legge molto e quindi portata all’elaborazione del pensiero e alla riflessione, da un lato; dall’altro ci sarà sempre di più una massa incolta che basa tutta la sua cultura su Internet, vale a dire la cultura dell’emozione, dell’istante e dello zapping. E questo equivale a un’assenza della riflessione. Perché per riflettere bisogna leggere, prendere del tempo e confrontare i testi. La cultura presuppone la lentezza e il silenzio. E noi viviamo nella società della rapidità e del rumore.
Quindi la massa sarà sempre di più permeata da una “non-cultura”, in una società dove i pregiudizi contro gli ebrei certamente non diminuiranno. E non soltanto contro gli ebrei. Aumenteranno le società dove tutte le credenze irrazionali avranno la possibilità di espandersi e lievitare.
Secondo lei i media europei hanno la tendenza ad amplificare le sofferenze del popolo palestinese e a mettere in secondo piano i pericoli e le difficoltà degli ebrei in Israele?
Sì, è così. Quello che per esempio è successo in luglio a Gaza è la risposta degli israeliani al fatto che nei mesi tra gennaio e giugno hanno ricevuto 84 missili sul territorio.
Nessun Paese al mondo accetterebbe di vedere i propri cittadini costretti a ripararsi nei rifugi. Proviamo a immaginare semplicemente degli italiani a Padova, Mantova, Venezia, Milano, Torino o altrove, obbligati all’improvviso a interrompere le loro attività quotidiane e correre verso la metropolitana per rifugiarsi da qualche parte. Nessun italiano sopporterebbe tutto questo per più di due giorni e chiederebbe all’esercito di intervenire. Dunque Israele ha il diritto morale di difendere i suoi cittadini in tutti i modi. Il rimprovero che viene mosso a Israele è di essere troppo forte, si amerebbe di più che Israele fosse debole.
Nello stesso modo, si amano gli ebrei morti e si detestano quelli vivi. Ma non ho risposto alla sua domanda: è vero che i media, in generale, tendono ad amplificare le sofferenze dei palestinesi e a considerare Israele sempre come quello forte e aggressivo. Anche qui ci sono molte risposte: se Israele non fosse stato forte oggi Israele non esisterebbe. È molto semplice. Se l’esercito israeliano non fosse stato il più agguerrito, Israele sarebbe stato cancellato dalla cartina geografica perché il mondo arabo ha un progetto genocida nei confronti di Israele, non vuole riconoscere il suo diritto di esistere. Per quanto riguarda i media, soprattutto quelli di sinistra, hanno sempre cercato una figura che rappresentasse il Bene e il Giusto sulla terra: una volta era il proletariato per il comunismo; dopo erano Cuba, il Vietnam e così via, tutti i luoghi che rappresentavano i poveri e gli oppressi sulla terra. Oggi è la Palestina a rappresentare l’oppressione sulla terra. Questa è la prima ragione. La seconda è la colpevolizzazione della Shoah. Se si riesce a dimostrare che gli israeliani si comportano come i nazisti, allora la colpa degli europei viene cancellata.
Gli ebrei della Diaspora devono avere paura?
Assolutamente no. Bisogna far sentire, a qualunque costo, la propria voce, combattere contro i pregiudizi e le situazioni avvelenate. Farsi prendere dalla paura equivale a perdersi. È una questione psicologica. La propaganda araba del genocidio nei confronti degli ebrei va fermata. La maggior parte degli israeliani ha condannato l’uccisione del giovane palestinese, mentre la maggior parte degli arabi hanno esultato per l’uccisione dei tre ragazzi israeliani. Non c’è altro da dire.