Festival/Basta routine, viva il riposo creativo

Jewish in the City

di Donatella Di Cesare

Culmina con un inno al lavoro la liturgia ebraica all’uscita dello Shabbat: «vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene» (Sal. 128, 2). L’alto concetto che l’ebraismo ha del lavoro risponde alla ricerca, anche etica, dell’indipendenza. Solo coloro che prendono parte ai sei giorni scanditi dalla melakhà, dal lavoro creativo, possono diventare, secondo una suggestiva formula rabbinica, «soci di D-o nel lavoro della creazione». Nessuno può essere escluso dalla dignità del lavoro che si compendia nella dignità del dare. Ecco perché chi è povero deve essere aiutato, a sua volta, ad aiutare. L’atto supremo di tzedakà, di una carità che si coniuga con la giustizia sociale, è offrire un posto di lavoro. Solo chi si guadagna la libertà può contribuire alla costituzione di una società libera.

Il lavoro, però, non è tutto e non può totalizzare l’esistenza, come avviene nel mondo contemporaneo, dove i giorni festivi, considerati null’altro che svago, distensione, divertimento, vengono calcolati e misurati sulla base di quelli lavorativi. In un’epoca dove tutto è monetizzabile, la festa diventa la perdita che, spesso a malincuore, si mette in conto. Così, dal momento che il lavoro manca, la perdita finisce per apparire sempre più inutile e insensata. Non stupisce che, di recente, gli stessi lavoratori siano stati portati ad accettare la cancellazione dei giorni festivi.

Ma schiavitù vuol dire che un giorno è uguale all’altro, in una catena ininterrotta.

Se ci sembra di non riuscire più a interrompere, è perché viviamo in una asfissia temporale. Siamo già, sempre, in ritardo. Il tempo manca, il tempo non c’è. Prima ancora che ci venga dato, il tempo è inghiottito nella frammentazione programmata di mesi, settimane e giorni, assottigliato nelle linee di un calendario.

Quello che viene chiamato «ingrigimento del calendario» è un fenomeno epocale. Alla vorticosa economia del tempo, scandito con ritmo sempre più accelerato, non sfugge nessuno. L’accelerazione, pensata come rimedio, come mezzo per battere il tempo, non raggiunge mai la propria meta e si rivela fine a se stessa, una forza che non si lascia più manovrare. Ogni guadagno di tempo richiede paradossalmente un nuovo investimento, aumenta il bisogno di tempo – in una vertigine senza fine.

La risposta al grigio di un presente che domina sugli altri tempi, sul passato e sul futuro, è spesso il malessere della depressione, la “malattia” del tempo, che non tollera il tempo, o la sensazione diffusa di essere travolti e sopraffatti dalla velocità e dal progresso di cui, pure, godiamo.

Incombe la minaccia di essere esclusi da una corsa inarrestabile. E i piccoli boicottaggi o le rivolte private servono a poco. Sono l’altra faccia della velocità: un modo di controllare il tempo. Ma il grande problema è l’ostilità con cui siamo spinti a considerare il tempo, quel nemico con cui lottiamo quotidianamente.

Shabbat è il giorno verso cui corrono gli altri per assurgere a una dimensione altra da quella del consueto e del quotidiano. Interrompere, riposare, festeggiare sono i significati che la radice shavàt porta con sé.

Il significato politico, inscindibile da quello religioso, non deve sfuggire. Non solo perché Shabbat è un ricordo, e dunque un riscatto dell’inizio, non solo perché attesta la liberazione dalla schiavitù, ma perché è l’irrompere di un tempo altro. L’utopia non è, nella forma di vita ebraica, una chimera che scivola nel remoto passato o nel lontano futuro, ma è un presente che entra ogni Shabbat. E deve essere vissuto, festeggiato, testimoniato.

Ma che cos’è l’interruzione del riposo? E che cos’è il riposo? Non si tratta di una semplice pausa, lasciata libera dal lavoro, che dunque al lavoro dovrebbe tornare utile.

Questo modo negativo di concepire l’interruzione induce a un comportamento altrettanto negativo. Ecco allora che la festa appare il vuoto di una pausa che non si sa come riempire. Di qui l’orror vacui e l’angoscia che spesso i giorni festivi suscitano, e di qui anche l’esigenza di riempirli con ogni sorta di attività alternative – dal footing allo shopping… -, per farne un giorno somigliante il più possibile agli altri.

Il riposo, però, non si esaurisce nel sollievo di un momento; non è la sosta che dà requie, né è contiguo al sopore. Semmai, ha a che fare con la veglia. Riposare non vuol dire solo trattenersi dal lavoro, ma anche trattenersi in sé, tornando a se stessi.

Riposo è ritorno, ritiro, raccoglimento. Il ritrarsi non è un ripiegamento egoistico sul proprio io. Piuttosto è quel raccogliersi per lasciare spazio intorno a sé, assumendo quella distanza, dal consueto e dal quotidiano, che fa sì che tutto appaia in una nuova luce. Riposare è soggiornare in un tempo altro, è abbandonarsi e farsi liberi. Festeggiare è diventare liberi dal consueto, svincolarsi dall’abituale che si ripete.

Affanno, ansia, turbamento segnano i rapporti con le persone e con le cose e finiscono spesso per coprirli, per renderli inaccessibili.

L’apertura di un tempo altro è la prospettiva in cui tutto risplende dell’essenziale. È questo lo splendore dello Shabbat, che illumina anche gli altri giorni.

Celebrare è raccogliersi intorno all’evento della festa che scioglie dalle costrizioni, in quella comunità che è tale proprio grazie alla festa. Il rapporto con il tempo, che ferma il calcolo, invita a indugiare, a trattenersi e partecipare, è improvvisamente altro, perché Shabbat è la celebrazione stessa del tempo.

Donatella Di Cesare è professore ordinario di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza di Roma; sarà presente con un intervento al Festival Internazionale di Cultura Ebraica di Milano