di Roberto Zadik
Sguardo diretto, un caschetto biondo, Adriana Cavarero è tra le voci filosofiche più interessanti d’Italia, professore di Filosofia Politica all’Università di Verona, dirige il centro di ricerca Politesse: politiche e teorie della sessualità. È stata Visiting Professor all’Università di Berkeley, alla NY University e in altri atenei europei e Usa. Esponente del pensiero della differenza sessuale e studiosa di Hannah Arendt, si confronta da tempo con le teoria femministe e con il pensiero radicale americano. Fra i suoi libri più recenti: Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli 2007), Non uccidere, con Angelo Scola (Il Mulino 2011), e Inclinazioni. Critica della rettitudine (Raffaello Cortina 2012).
Ospite al Festival Jewish and the City, commenta per noi, in anteprima, il versetto biblico “Ama il forestiero”, nell’ambito della maratona filosofica che durante l’evento sarà su I dettami che nella Torà tracciano il percorso di conquista della libertà.
Quali i rapporti fra il tema “Ama il forestiero” e quello di Pesach, che ricorda che gli ebrei furono stranieri in Terra d’Egitto?
Penso che su questo sia importante la lezione di Emmanuel Lévinas, il quale osserva che lo straniero è l’Altro per antonomasia, l’Altro che non conosco – che sfugge alla mia presa – ma che proprio per questo devo accogliere ed amare. In altre parole, amare il simile, il famigliare, è un atto il cui fondamento etico sarebbe già compromesso da questa somiglianza o familiarità che funge da premessa e ne è la precondizione. Invece l’etica autentica deve fondarsi sulla pura accoglienza dell’Altro, senza condizione e prima di ogni conoscenza, o meglio, a prescindere da una conoscenza che sarebbe già una forma di possesso. La forte radice ebraica del pensiero di Lévinas, e la sua originalità rispetto alla tradizione greco-razionalista, sta proprio in questa insistenza sul primato dell’etica rispetto al primato della conoscenza. Il volto dello straniero, che mi guarda faccia a faccia, senza mediazioni e senza condizioni, nella sua assoluta nudità mi convoca e mi chiama a rispondere, instaurando così l’atto etico per eccellenza.
Quest’anno la Giornata Europea della Cultura ebraica, che si celebra all’interno del Festival, è dedicata alla “Donna nell’ebraismo”. Ora, il pensiero femminile e femminista è fondamentale del suo profilo di studiosa. Che cosa ci può dire della specificità del pensiero femminile in relazione alla Narrazione, anche della propria identità? Penso ad Hannah Arendt, alla quale lei ha dedicato una profonda riflessione.
Hannah Arendt, molto diversa da Lévinas, e formatasi sulla tradizione classica più che sull’eredità ebraica, è un altro dei miei riferimenti fondamentali per ripensare l’etica e la politica, anche in chiave femminista. Di Arendt apprezzo soprattutto la sua attenzione alla categoria di ‘nascita’ e la sua insistenza sull’unicità incarnata di ogni essere umano (ben lontana dai fasti del ‘soggetto universale’ di cui parlano i filosofi). Arendt non era affatto femminista e non ha mai mostrato un particolare interesse per le questioni di ‘genere’. La sua tesi sulla narrazione di una storia di vita, ossia sulla biografia, come modalità per restituire senso all’unicità irripetibile e insostituibile di ogni esistenza è tuttavia preziosa per comprendere lo specifico interesse femminile per la storia e la narrazione, come antidoti all’astrattezza del filosofare.
Detto altrimenti, se pensiamo agli esseri umani come singolarità incarnate, nate da una madre invece che luttuosamente segnate dalla loro stessa mortalità, ossia come creature esposte all’Altro e già in relazione con lui fin dall’inizio, mettiamo in atto una rivoluzione prospettica che contrasta il marchio – cosiddetto fallologocentrico – della tradizione filosofica occidentale.