Festival / “Cultura ebraica laica”: parliamone

Jewish in the City

di David Piazza

Vorrei iniziare con una citazione da un testo a me molto caro. State attenti e cercate di indovinare chi è l’autore.

Il volto della Halakhà: severo.

Quella della Aggadà: sorridente.

La Norma: pedante, grave, dura come il ferro… l’espressione del rigore.

La Leggenda: indulgente, lieve, tenera come il burro… l’espressione della Misericordia.

La Halakhà e la Aggadà sono davvero due approcci diversi, ma in verità sono un’unica cosa, due volti della stessa creatura.

Quale rabbino avrà scritto queste bellissime parole sul connubio inscindibile tra le parti narrative del Talmud e quelle legislative? No, non vi affaticate troppo, perchè non è un rabbino… È il laico Chayim Nachman Bialik, uno dei più grandi scrittori del rinascimento ebraico. Uno che ha composto una “bazzecola” come il Sefer Haggadà, la più completa antologia di racconti e detti del Talmud.

Ma erano laici anche David Ben Gurion e Moshe Dayan e tuttavia la loro non osservanza non impediva loro di sentirsi fieri eredi di una tradizione millenaria, che non solo studiavano, ma che citavano in continuazione e che mai aveva impedito loro di essere interpretata secondo la loro coscienza laica. Ed era sempre il laico Chaim Herzog, che da generale di Tzahl studiava le sue strategie militari confrontandole con le guerre combattute migliaia di anni prima sullo stesso territorio e raccontate nel Tanakh.

Eppure scorrendo le testate ebraiche sul web di ogni corrente, capiamo come in Italia la cultura ebraica sia purtroppo rigidamente divisa in compartimenti stagni, quella laica e quella religiosa. La prima appannaggio degli intellettuali e la seconda dei rabbini o al massimo di qualche studioso. Con poche e notevoli eccezioni, sono i primi a essere anche generalmente invitati più frequentemente a rappresentare la cultura ebraica verso l’esterno. E proprio di questi, con affetto e con franchezza, vorrei parlare, per entrare nel vivo del discorso.

L’impressione forte è infatti che in Italia se all’esterno si parla di cultura ebraica laica, l’accento è troppo spesso sul “laica” e meno sull’“ebraica”. È vero, in questo la loro dose di responsabilità ce l’hanno anche i campioni dell’ebraismo più tradizionale, che per una serie di ragioni preferiscono dedicarsi maggiormente alle attività rivolte all’interno.

Fatto sta che se cerchiamo una figura simile agli intellettuali ebrei che vengono chiamati a partecipare al dibattito civile in quanto ebrei (e sottolineo in quanto ebrei): cioè come Bernard Henry Levy, Elie Wiesel o Andreè Glucksmann, per una ragione o per l’altra, in Italia arriviamo sempre e solamente allo straordinario Amos Luzzatto. Certo, lui avrà pure avuto a Yerushalayim un’educazione tradizionale, ma il punto è: chi tra tutti gli altri intellettuali laici è anche in grado di tenere una lezione di Talmud, come fece lui mirabilmente qualche anno fa, al Bene Berith di Milano?

Come siamo arrivati a questo? Faccio qualche esempio.

Solo qualche anno fa nella scuola ebraica di Milano si sono avute vivaci alzate di scudi contro l’introduzione alle elementari dello studio della Torà accompagnato dal commento di Rashì. Abbiamo sentito dire: “Non vogliamo mica trasformare la nostra scuola in una yeshivà!”.

Ci sarebbe però da domandarsi allora che cosa possa esserci di più laico di uno studio critico del testo analizzato alla luce del grande commentatore medievale, che riesce a condensare nelle sue note l’analisi grammaticale, quella della semplice logica e quella della tradizione midrashica.

Ma da quando Rashì, che pure viene citato dai riformati italiani come parte integrante della loro maniera di concepire l’ebraismo, è diventato una cosa “da religiosi” e “da yeshivà”?

E perché mai a Roma, che non è né Anversa né Bene Berak, il liceo ebraico viene introdotto allo studio del Talmùd in forma curriculare, mentre i nostri ragazzi possono avere questo rarissimo privilegio quasi solo partecipando alle lezioni del Collegio Rabbinico? Eppure è stato proprio il Talmùd l’argomento centrale del discorso di insediamento della deputata alla Knesset, Ruth Kalderon, del partito ultralaico Yesh Atid http://youtu.be/S8nNpTf7tNo . In questo commovente intervento – che ha avuto migliaia di visualizzazioni su YouTube -, la deputata spiegava di come era proprio la forte dicotomia culturale che aveva impedito a lei e a moltissimi altri di poter apprezzare questo enorme patrimonio che noi ebrei siamo fieri di aver trasmesso all’umanità.

Ma per arrivare a parlare del Festival Internazionale di Cultura Ebraica che ci sarà a Milano dal 28 settembre al 1 ottobre, dobbiamo prima tentare di capire quanto questa scissione della e dalla nostra cultura ebraica possa essere negativa per tutti noi, indipendentemente da quale sottotribù religiosa ci sentiamo di appartenere.

Innanzitutto sul versante “esterno”. Non c’è alcun dubbio che la nostra missione di testimoni dell’orrore che il popolo ebraico ha subito nella Shoah, sia una parte fondamentale della nostra identità ebraica, ma è altrettanto vero che poche culture ebraiche occidentali ne abbiano fatto la loro componente preponderante come invece succede in Italia da decenni. Questo fa sì che quando veniamo chiamati, oppure ci proproniamo all’esterno, la cultura ebraica continua a essere quella della vittima, della violenza e della morte. Continuiamo a parlare del male che gli altri ci hanno fatto, piuttosto che del bene di cui la nostra cultura è per fortuna ricca.

Ma questa problematica non è slegata da quanto cercavamo di spiegare prima: probabilmente parliamo di Shoah, perché in quanto ebrei abbiamo forti difficoltà a parlare d’altro, e perché stentiamo a instaurare un dialogo culturale con l’esterno su premesse che siano genuinamente nostre. Certo, abbiamo lo splendido volontariato delle due organizzazioni che sono chiamate a parlare nelle scuole, e sappiamo che la Shoah è solo a volte il pretesto per spiegare la vita e le tradizioni degli ebrei o di Israele, ma il tutto è sempre troppo condizionato dalla ragione primaria per la quale vengono invitati.

Tra l’altro, così facendo e senza vere differenze culturali, dobbiamo renderci conto che rendiamo la società civile più povera e più dipendente da quella predominante, quella cattolica.

Ma il danno maggiore è comunque al nostro interno di piccola comunità ebraica italiana dalle mille anime che convivono, non sempre per scelta, sotto lo tesso tetto.

La scarsa conoscenza delle nostre radici ebraiche e la rigida separazione tra ebraismo laico e ebraismo religioso tendono ad accentuare soprattutto la conflittualità, perché in assenza di una larga base condivisa di valori comuni, anche se interpretati diversamente, le uniche discriminanti non possono che essere quelle dei diversi gradi di osservanza. Quindi osservanti e meno osservanti che si trovano alla naturale ricerca di risposte identitarie, e si rifugiano ognuno nei rispettivi santuari (perché tutti ne hanno uno), ed è proprio lo spazio comunitario a risentirne maggiormente

Questo Festival nasce quindi come un timido tentativo di risposta a queste problematiche. Ponendo quest’anno lo Shabbàt al centro dell’attenzione proveremo a portare all’esterno tutti insieme non solo uno dei nostri fondamenti più intimi, ma anche un importante contributo alla società civile, sotto i molti aspetti che abbiamo provato a descrivere.

All’interno invece, se riusciremo a parlare di Shabbàt anche nelle istituzioni, anche oltre la stretta durata del Festival, forse avremo qualcosa di più in comune e un po’ meno da discutere. Quello che è certo che quella del gruppo promotore è solo una proposta che potrà avere successo solamente se verrà raccolta e interpretata diversamente da ognuno non solo con lo studio e con l’approfondimento, ma soprattutto con attività concrete.

Per concludere: tutti noi in Comunità, osservanti e meno, abbiamo bisogno di una cultura ebraica laica che sia “ebraica” almeno con altrettanta forza di quanto questa è “laica”. Ne abbiamo bisogno fuori, ma ne abbiamo ancora più bisogno dentro.