Il provocatorio e riflessivo Amos Gitai, a tredici anni dall’uscita del suo esplosivo “Kadosh” che scatenò all’epoca non poche polemiche, torna sul tema della religione con un cortometraggio, “The book of Amos” (Il libro di Amos), tratto dall’omonimo libro del profeta biblico.
Nel variegato calendario della prima edizione del Festival Internazionale di Cultura Ebraica, domenica pomeriggio al Teatro Franco Parenti, in una sala gremita, si è dunque parlato anche di cinema. Ospite Amos Gitai, uno dei registi israeliani più amati e conosciuti e discussi, in Israele come all’estero.
Sul palco insieme a Ruggero Gabbai, Gitai, reduce dal Festival del Cinema di Venezia dove ha presentato il suo ultimo “Anarabia”, ha parlato di cinema, di Israele, di Italia, ma anche di famiglia e di religione. “La Bibbia – ha detto – è un testo universale e non un feticcio; che parla a tutti i popoli, agli ebrei, ai palestinesi, agli europei. E’ un testo di giustizia e di critica sociale e politica sempre attuale, e va reinterpretato in ogni generazione”. “E’ un testo commovente anche ai giorni nostri” ha aggiunto. “E’ importante trasmettere i valori della Bibbia alle giovani generazioni; è importante interrogarsi sul potere, ma anche sul cosa trasmettere e sul come comunicare”.
“The Book of Amos”, presentato in anteprima, è un cortometraggio di grande forza poetica ed emotiva, una rivisitazione in chiave moderna e attuale dell’omonimo testo biblico. Si vedono soldati israeliani che sparano in aria, scene di guerriglia che si alternano a brevi monologhi tratti dal Libro di Amos, recitati sia in ebraico sia in arabo.
Il film fa parte di un progetto più ampio dal titolo “Parole agli dei”, a cui partecipano registi come Ken Loach, Emir Kusturica e Sean Penn. Gitai per parte sua ha spiegato che per questo progetto ha scelto di parlare di libro del profeta Amos ricordando in particolare sua madre che gli spiegava la Torah : “Sono cresciuto in una famiglia laica che però mi ha trasmesso il rispetto per i testi sacri”.
Nel corso dell’intervista con Gabbai, Gitai ha toccato anche altri temi: ha ricordato per esempio l’arrivo dei genitori in Palestina nel 1906, provenienti dalla Russia –“furono fra quei pochi, il 10 percento circa, che decisero di rimanere in quelle terre, devastate dalla malaria e dalla disoccupazione; il resto preferì emigrare di nuovo…” ; e non ha dimenticato di accennare anche all’Italia e alle somiglianze che egli intravede con Israele. “Israele e l’Italia si somigliano, sono due Paesi a modo loro schizofrenici… mi sento a casa” ha detto. “Amo l’Italia, è un paese pieno di persone brillanti, raffinate e intelligenti, e pieno nella stessa misura di brutalità, volgarità e cattivo gusto”.
Quanto ad Israele, “è un luogo toccante, emozionante e pieno di passione” ha osservato; “ma io sono figlio della generazione della guerra del Kippur, quella che ha perso ogni illusione sulla politica e suoi leader”.
Grande assente nella conversazione che accompagnato la proiezione di The Book of Amos, il tema dello shabbat, d’altra parte, ha concluso Gitai “oggi è domenica!”.