di Ilaria Myr
«E lo dirai al popolo…, e lo dirai ai tuoi bambini»: parole queste che sono tra i più sentiti e antichi leitmotiv della tradizione ebraica, che ben fanno capire quanto la trasmissione orale abbia un ruolo centrale nell’educazione e nella cultura ebraica. Trasmettere, non lasciare che il patrimonio di storia, etica e fede si disperda nel vento e nelle sabbie del tempo. Questo il tema centrale su cui riflette oggi Catherine Chalier, tra le più importanti filosofe europee contemporanee, allieva e interprete originale del pensiero di Emmanuel Lévinas, (presente, il 14 settembre alla Sinagoga centrale di Milano).
Al festival Jewish and the City, la Chalier si concentra sull’importanza della narrazione nel processo di veicolazione della cultura.
Ci può sintetizzare qual è in generale il ruolo della trasmissione orale nella formazione di una persona?
Le prime parole che si dicono a un bambino gli permettono di dare una forma a quello che egli prova confusamente, talvolta dolorosamente. Non conta tanto il contenuto di ciò che viene detto, quanto la melodia della parola, il tono utilizzato, il fatto che qualcuno lo consideri una persona a cui vale la pena parlare. Queste parole si indirizzano alla carne emozionale di un bambino, e non solamente alla sua intelligenza. In ebraico si parla del taam, del gusto di una parola, cioè del suo senso, del suo sapore, del suo colore: ed è proprio questo che dà a un bambino il desiderio di crescere.
Più in generale, la trasmissione orale – quella da persona a persona, di generazione in generazione, di voce in voce – è essenziale, malgrado le ideologie e le tecnologie moderne tendano a farci credere che se ne possa fare a meno e che chiunque possa, a partire da se stesso, essere iscritto nella storia che lui si sceglierà. Questa è, a mio avviso, una fantasia distruttrice, di autofondazione, che ci fa precipitare verso lo tohu bohu che nella Torà precede la parola.
Quale ruolo svolge, da sempre, la trasmissione orale? Perché nell’ebraismo questa funzione è più forte che in altre culture?
Nella Torà è una mitzvà raccontare ai bambini la storia dei propri antenati. La parola lega il presente al passato, e chiama in causa anche il futuro: costituisce un legame vivente tra le generazioni. «E dirai al popolo», «E dirai ai tuoi bambini», sono dei leitmotiv. Questa trasmissione orale non si oppone a quella scritta: le due vanno insieme, dal momento che il testo scritto esige sempre un’interpretazione, un’ermeneutica.
In una biblioteca universitaria, è richiesto il silenzio e ognuno studia da solo: in una yeshivà la parola si fa costantemente udire perché le persone studiano insieme discutendo ad alta voce. La mitzvà della trasmissione delle parole è legata alla promessa: «E vivrai attraverso di esse». Se colui o colei che trasmette non vive delle sue parole, esse si sgretolano e presto non ne resterà più nulla.
Che significato dà al concetto di libertà? E che ruolo questo concetto ha nell’ebraismo?
Nell’epoca dei lumi, l’Illuminismo del ‘700, la libertà è diventata per molte persone sinonimo di autonomia, vale a dire il dare a se stessi la propria legge. Grazie alla nostra ragione, dice Immanuel Kant, siamo capaci di darci la nostra legge morale e politica. Ma la libertà è forse questo? L’ebraismo non lo pensa: esso combatte certamente la sottomissione alle forze alienanti e distruttive (come il faraone), ma allo stesso tempo invita a trovare la propria libertà partendo da un’eredità che ci orienta nell’esistenza. Difficile libertà, come dice Levinas, ma libertà malgrado tutto. La Torà insegna la libertà a partire da delle Tavole di pietra, hérout al haLouhot (libertà sulle Tavole). Rispondere a quello che le Tavole della legge insegnano e chiedono, ci aiuta a liberarci dalle forze tenebrose che ci abitano e da tutte le forme di idolatria. È dunque così che si deve cercare la libertà.
Perché il concetto della trasmissione orale della libertà è importante? Come si riesce a trasmetterne il suo valore più alto?
Prima di tutto vivendolo in prima persona! Se pronuncio delle parole che annunciano la libertà, ma io stesso sono prigioniera di alienazioni terribili, posso sempre parlare di libertà, ma la persona a cui parlo sentirà la contraddizione. La libertà per me significa la possibilità di diventare se stessi, ma questo se stessi non è un’isolotto solitario. La responsabilità – che sentiamo per gli altri, per la parola che ci è trasmessa e che siamo chiamati a trasmettere -, non si lascia dissociare dalla libertà. In fondo, ciascuno di noi deve dire a se stesso “sono l’unico a portare questa responsabilità”: ed è in questa unicità che si trova la più alta ed esigente libertà.