Festival / L’eterno presente ebraico

Jewish in the City

di Ilaria Myr

Il concetto di tempo e della sua relazione con lo spazio sono da sempre oggetto di teorie e riflessioni nei più diversi ambiti, da quello filosofico a quello scientifico. Nell’ebraismo, però, questi aspetti assumono connotazioni particolari e molto diverse rispetto a quelle dominanti. Questo il punto di partenza dell’incontro “Spazio e tempo”, tenutosi il 29 settembre durante la prima giornata del festival Jewish and the City, che ha visto confrontarsi su questi temi tre importanti studiosi di discipline differenti: il geografo Franco Farinelli, direttore del dipartimento di filosofia e comunicazione all’Università di Bologna, il filosofo Vincenzo Vitiello, docente di filosofia della storia all’università Vita e salute San Raffaele, e Claudio Bartocci, professore di fisica matematica all’Università di Genova.

«Il popolo ebraico per molti secoli è stato lontano dal suo centro geografico, il suo santuario – ha spiegato Rav Roberto Della Rocca, moderatore dell’evento -. Mentre nei tempi antichi ogni popolo a cui veniva distrutto il santuario era ineluttabilmente destinato a scomparire, per il popolo ebraico è proprio la distruzione dei due Templi a causarne la straordinaria e sovrannaturale sopravvivenza. A questo edificio di pietra si è sostituito di fatto un “tempio invisibile”, meno tangibile, che ha seguito il popolo ebraico ovunque. Nel corso dei secoli, accompagnati dalla speranza messianica, gli ebrei hanno sviluppato una visione unitaria del tempo, slegata dallo spazio». Questo è evidente, ad esempio, nel fatto che tutti gli ebrei – nello stesso istante, ovunque siano nel mondo (fusi orari a parte) – celebrino lo Shabbat. Ma è anche ben visibile nel fatto che in Israele non esistano monumenti come in altre parti del mondo. «Lo Shabbat più di ogni altra festività diventa il nostro spazio interno, ben distinto, anche nel nome dagli altri giorni della settimana».

Gli ebrei e il tempo: un’eternità sempre presente
Interessante, a questo proposito, la riflessione del geografo Franco Farinelli, che ha sottolineato come il popolo ebraico sia l’unico nella storia ad avere acquisito fin dall’inizio una completa capacità di manipolazione simbolica, ma ad avere poi impiegato molto tempo per fa corrispondere a questa una struttura territoriale. «Oggi Israele è l’unico Stato al mondo in grado di fare i conti dignitosamente con le migrazioni – ha spiegato -, al contrario degli altri Stati moderni civilizzati, che sono invece costruiti sul principio che il soggetto è statico, che non si muove, e che vi è sempre una distanza lineare fra i diversi soggetti nello spazio. Il popolo di Israele con la sua incessante mobilità fugge per primo da questo modello e scopre la trascendenza, l’idea cioè che vi sia un’eternità presente e continua. L’esodo e i 40 anni nel deserto sono chiaramente un rifiuto di questo modello cosmologico su cui è costruita l’intera modernità».
Tutto ciò porta a riflettere sul concetto di “storia”, che nell’ebraismo non è inteso come successione cronologica di eventi, ma come compresenza di vari strati temporali nello stesso tempo. «Eloquente è il fatto che in ebraico la parola “storia” non esista, e che venga più comunemente usato il termine “Toledot”, generazioni – ha spiegato Rav Della Rocca -, come se la storia si costruisse attraverso le generazioni in una catena di trasmissione del ricordo. Nella Torà si dice “considera come se tu stessi uscendo dall’Egitto”, intendendo l’uscita dall’Egitto come quella da ogni schiavitù: vengono rotte tutte le barriere del tempo, in un’ermeneutica in cui non c’è nessuna logica. Tutto ciò è ben evidente anche nel Talmud, che è un viaggio ipertestuale in cui il ragionamento tematico è privilegiato rispetto a quello cronologico, in cui si sintetizzano diversi tempi sempre in movimento».

Lo spazio: un insieme di relazioni
Nel mondo scientifico, però, è certamente difficile scorporare lo spazio dal tempo, due entità inafferrabili per eccellenza, tanto che nella fisica del’900 è stata creata l’unità “spazio-tempo”: questo il punto di partenza della interessante – ma difficile – riflessione del matematico Bartocci sulla relazione fra spazio e tempo nella teoria della relatività. «Nella scienza moderna
si ritrova una tensione fra ciò che è relativo e ciò che è un assoluto – ha spiegato -: l’ordine causale e quello temporale sono intimamente connessi». Per concepirlo è dunque necessario estendere l’idea che si ha dello spazio, intendendolo non come un insieme di punti, ma di relazioni.
Una teoria, questa, condivisa anche dal filosofo Vincenzo Vitiello che, leggendo la splendida poesia di Paul Celan ‘Corona’, estende questa logica trascendentale anche all’idea del tempo. «Forse il vero tempo non è quello nel quale siamo, ma è quello che volta a volta costituiamo con le relazioni».

Un modello da riscoprire
Alla luce di tutte queste riflessioni, viene dunque da porsi una semplice quanto enorme domanda: oggi che viviamo in un’epoca totalmente globalizzata e dominata dalla Rete, ha ancora senso dare ai concetti di spazio e tempo il significato classico che gli è stato attribuito fino a oggi? «Siamo in una fase in cui è necessario adottare modelli alternativi di funzionamento del mondo – ha dichiarato farinelli -. Uno dei più straordinari è proprio quello del popolo ebraico, e l’umanità avrà tutto da guadagnare se studierà i testi del popolo di Israele».
In tutto ciò, un ruolo centrale è quello svolto dallo Shabbat, la rappresentazione più chiara della concezione ebraica del tempo, che ricorda all’essere umano la sua incompletezza. «Shabbat arriva per darci la dimensione della nostra precarietà e limitatezza, del fatto che non siamo onnipotenti – ha sintetizzato Rav Della Rocca -. Ma la debolezza nell’ebraismo è sempre vista come un motivo di forza e una spinta alla crescita. Sapete perché il Talmud non possiede la pagina numero 1? per farci ricordare che manca sempre una pagina».