di Ilaria Myr
Nell’Haggadah di Pesach ci sono quattro personaggi: il chacham (il saggio), il rashà (il malvagio), il tam (semplice) e vesheino iodea lishol (colui che non sa fare domande): quattro figure che possono simboleggiare quattro tipologie di figli diversi. Di questo hanno parlato alcuni relatori dalle diverse esperienze pedagogiche durante l’incontro intitolato “Educare alla diversità”, tenutosi alla Sormani lunedì mattina.
«Nell’ambito dell’educazione il concetto del tempo, di cui ha parlato anche Rav Carucci, nella crescita è fondamentale – ha spiegato il moderatore David Fargion -. Basti pensare che gli ebrei ci misero 40 anni per uscire dal deserto: questo perché ne avevano bisogno per comprendere e crescere. E poi nell’ebraismo c’è l’idea di “fare cerchio”: come gli elefanti si stringono in cerchio intorno ai più deboli, gli ebrei tendono ad accompagnare nel percorso i più bisognosi e indifesi, rispettando i tempi di ognuno».
Molto interessante è stata anche l’interpretazione delle quattro figure dell’Haggadah data dal laico Marco Masoni, docente presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia di Padova e Mestre per i corsi di psicoterapia e di psicologia scolastica. «Innanzitutto, mi colpisce che prima di nominare i quattro tipi di ragazzi, c’è la parte in cui un bambino pone delle domande – ha dichiarato -. E proprio la domanda è forse una chiave con cui analizzare le quattro figure. Per il primo, il sapiente, viene detto “apri la bocca, fallo parlare”: ciò significa “fagli fare domande”, portarlo cioè a stupirsi e a interrogare. C’è poi il semplice, con cui si devono semplificare le spiegazioni». Per parlare di colui che non sa fare domande, Masoni introduce un discorso storico: gli egiziani erano un popolo che si dice balbettasse, che cioè non sapeva fare domande, in cui tutto era immobile, mentre gli ebrei, in mezzo a loro, erano il popolo che si differenziava, e che riuscì a fare un esodo. «Ecco, colui che non sa fare domande è colui che non si è accorto che c’è di mezzo un esodo, un cambiamento – continua -. Quindi è come se il testo dicesse che bisogna risvegliare la curiosità di fare domande in questo tipo di persona». L’ultimo, infine, secondo Masoni non è davvero un malvagio, quanto piuttosto un critico: ha capito che il mondo cambia, ma non accetta le nuove regole. A lui bisogna quindi fare capire che vive in mezzo agli altri. «Tutto ciò dimostra come la Haggadah stia suggerendo che chi si deve educare sono prima di tutto gli adulti- conclude Masoni-, che devono imparare a porsi nel modo giusto con ogni tipologia di bambino».
Un approccio molto interessante è quello di Reggio Children, il metodo pedagogico di asili nido e materne nato a Reggio Emilia e oggi diffuso in tutto il mondo. «Il presupposto della nostra pedagogia è che ogni individuo è irripetibile- spiega Carla Rinaldi, Presidente della Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi -. La nostra è quindi una quotidiana manifestazione di differenze e una continua educazione alla diversità. Alla base c’è la convinzione che l’infanzia non sia solo un soggetto da educare, ma anche un soggetto che educa, da cui si possono imparare molte cose».
Infine, era incentrato sul valore della domanda e dell’infanzia l’intervento di Jael Kopciowski, psicoterapeuta, già giudice onorario al Tribunale dei minorenni di Trieste e Consigliera in Corte d’Appello, attualmente esperta al Tribunale di Sorveglianza, nonché figlia di Rav Elia Kopciowski e sua moglie Clara. «La domanda in tutto il pensiero ebraico ha un’importanza essenziale – ha spiegato -. Si pensi alle domande che Avraham e Moshè fanno a D-o: sono sempre esposte con l’intento di capire, visualizzare futuro, cogliere elementi del passato. E durante Pesach, dopo il Kiddush, si inizia con “Ma Nishtanà?”, con una serie di domande del bambino più piccolo». Del resto, durante tutto il Seder sono diversi gli espedienti con cui si cerca di incuriosire e tenere svegli i bambini: questo perché il ruolo dell’infanzia in questa festa e in generale nell’ebraismo è fondamentale.
Tornando ai quattro tipi di figli, interessante è ciò che Kopciowski dice sulla figura del “rashà”. «Più che malvagio, è critico, oppositivo. Quindi è importante fargli capire di essere parte di un gruppo in cui anche la domanda critica ha il suo posto. La domanda è dunque sempre importante, perché pone il popolo nella condizione di fermarsi e riflettere. Questo perché nell’ebraismo la domanda è centrale, tanto che se non ci sono domande le si deve stimolare: perché la domanda aiuta il bambino a verbalizzare i suoi bisogni e l’adulto a capire i processi che stanno avvenendo».
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