Jewish and the City / Moshé e la leadership – I nuovi schiavi

Jewish in the City

di Ester Moscati

IMG_6108Che cosa significa essere un leader? E quanto può essere in pericolo  una società quando chi dovrebbe esserne il leader, per codardia o incapacità preferisce fare il follower, seguire cioè la corrente, fare ciò che la gente vuole e dire ciò che la massa ama sentirsi dire?

Il Festival Jewish and the City ha offerto l’occasione di ragionare e confrontarsi su questo tema a partire dalla figura di Moshé/Mosè, il condottiero, colui che ha portato il popolo ebraico dalla schiavitù alla libertà. Con le riflessioni di Antonio Calabrò, Senior Advisor Cultura della Pirelli e consigliere delegato della Fondazione Pirelli e dell’Hangar Bicocca, e di Rav Roberto Della Rocca, Direttore scientifico di Jewish and the City e Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’UCEI, il pubblico che ha affollato, nel pomeriggio di domenica 14 settembre, l’Auditorium della Società Umanitaria ha potuto anche ascoltare il Reading dal libro di Louis Ginzberg Le leggende degli ebrei. Mosè in  Egitto, Mosè nel deserto (Adelphi), dalla intensa voce dell’attore Giovanni Battista Storti,
Ha moderato l’incontro David Fargion, psicoanalista, membro del Comitato promotore del Festival.

Moshé/Mosè è una figura multiforme, contraddittoria, in equilibrio  tra due terre e due appartenenze. Proprio a questo personaggio è stato  affidato il compito di condurre il popolo ebraico fuori dall’Egitto.

«La storia è cambiamento, secondo la definizione di Marc Bloch ‘scienza del cambiamento e delle differenze’ – dice Antonio Calabrò – È il punto fondamentale delle culture. Anche della cultura dell’impresa. E le donne imprenditrici, oltre ad essere capaci di capire e progettare, hanno una attitudine in più: comprendere la dimensione della complessità e trovare chiavi interpretative».
Per essere pronti al cambiamento, occorre nella cultura imprenditoriale una Filosofia, che oggi non a caso è materia  obbligatoria anche nelle facoltà di Ingegneria. Perché forma alla Complessità e prepara ad essere, come Mosè, dei leader rivoluzionari. Nell’impresa e nella politica, come dimostrano Adam Smith, ma anche Keynes, che sono prima di tutto “filosofi morali”, è indispensabile la qualità del pensiero complesso per interpretare la realtà.

«C’è una Laurea in Filosofia anche nel curriculum di Marchionne – sorride Calabrò – Uomo ‘imperativo’, secondo la vulgata… forse più autoritario che autorevole. Invece è capace di gestire il dialogo come pochi, e negli Usa è famoso per questo».

L’impresa ha dunque bisogno di uomini che si pongono di fronte alla complessità cercando l’essenziale e la trasformazione, che siano attori della trasformazione, come Mosè.

«Oggi si assiste ad una radicale modifica degli assetti, diversi di quelli che hanno guidato la generazione precedente; è cambiata perfino l’ermeneutica del cambiamento. Siamo nati nello Stato nazione e nella società di classe, abbiamo vissuto e celebrato il primato della politica, in un mondo rassicurante. Oggi non c’è più nulla di tutto questo. È saltato l’insieme dei poteri tradizionali». Oggi però c’è grande voglia di comunità. Bauman ci ha detto che la società è liquida. Abbiamo vissuto un profondo spaesamento e siamo alla ricerca di ancoraggi, porti sicuri dato che le forme della cultura sono tutte destrutturate.

«Per questo oggi – conclude Calabrò –  ricorre il termine Territorio. Anche l’impresa è un “territorio”, un luogo comune, un punto di coagulo sociale. L’essere condottiero è sapere che c’è un processo, un futuro da fondare. Insieme».

L’intervento di Rav Della Rocca ha presentato la figura di Mosè come leader e maestro. «Il nostro capo è un maestro,  – ha detto – non un santo, non un salvatore».

L’uscita dall’Egitto è un passaggio da un’etica ad un’altra e per fare questo serve un maestro. Mosè è la figura più complessa e contraddittoria dell’ebraismo. Nasce in un periodo di persecuzione, viene alla luce e viene “nascosto”. Vittime di un decreto simbolico, i bambini ebrei dovevano essere affogati nel Nilo. «Il Faraone voleva immergere i bambini nella cultura egizia. Mosè viene invece ‘affidato’ al Nilo. La figlia del Faraone, Bitia, coraggiosa, si mette contro il dittatore per salvare il bambino ebreo. Immaginate Edda Mussolini che salva un bambino ebreo nel 1938… Bitia diventa la metafora dei Giusti delle Nazioni. È la prima Giusta dell’Umanità. Lei dà il nome a Moshè, che significa in lingua egizia semplicemente ‘bambino’, come fosse un paradigma.
Nelle contraddizioni della vita di Moshé c’è anche il paradosso dei Nomi, perché i maestri dicono che gli ebrei furono salvati perché conservarono i nomi ebraici, ribadendo così il coraggio della trasmissione dell’identità.
Perché il leader non porta un nome ebraico? Moshé vuol dire bambino in Egizio. Il suo nome ebraico è Tuvia, buono. Perché Moshé anche fuori dall’Egitto non si riappropria del suo nome ebraico? Lo fa per riconoscenza verso la mamma adottiva che lo ha salvato e ha dato forza a tutta la vita e all’opera di Moshé. Ma farlo è già una manifestazione di un’etica ebraica, un’etica diversa, perché  in Egitto non c’era il valore della riconoscenza… ‘E sorse un Faraone’ è scritto nella Bibbia. ‘Un nuovo Faraone che non sapeva chi era Giuseppe’. In realtà lo sapeva molto bene, ma scelse di ignorarlo. Per perseguitare gli ebrei e renderli schiavi deve “dimenticare” tutto il bene che l’ebreo Giuseppe aveva fatto per l’Egitto. Come accadde per gli ebrei  in Italia nel 1938, si fece finta di non “conoscerli”.

Questo è quello che accadde in Egitto: “non ha più conosciuto Giuseppe”.
La rivoluzione è etica, uscire dall’Egitto, fare uscire l’Egitto dalla nostra testa, se l’Egitto rappresenta l’uso strumentale delle persone; bisogna essere riconoscenti verso chi ti ha fatto del bene, così Moshè fonda l’etica della riconoscenza verso la mamma adottiva.

Ma qual è l’identità di Moshé/Mosè? E’ la prima incarnazione dell’identità multipla che accompagnerà gli ebrei nei secoli, quella che attira incomprensione e sospetto ma anche ammirazione e che nella sua costante attualità rende l’ebreo il simbolo di ciò che è plurale nella società.

“Quando salva le figlie di Itrò viene riconosciuto come egiziano, ma dentro ha il roveto ardente, la coscienza ebraica”, dice ancora Rav Della Rocca. “Doppia identità. Salva la vita delle sette donne, dirime le controversie, protegge i deboli… Ma è anche un Principe d’Egitto. La mamma naturale lo allatta, lo cresce culturalmente nella fede del popolo ebraico. Moshé… Non è mai sorto in Israele un profeta come Moshé che ha ‘parlato con Dio faccia a faccia’, è scritto. Ma in ebraico la parola panim è solo plurale, e significa anche ‘intimità’. Moshé è colui che riesce a far parlare.  Nonostante sia ‘lento di favella’, riesce a far parlare tutti i pezzi di sé,  riesce a far dialogare i tanti pezzi della sua interiorità ed è
per questo che è il traghettatore della libertà”.

Moshé è conosciuto anche per la sua umiltà.  La Bibbia dice che Moshè è l’uomo più umile di tutta la terra. E’ animato dallo spirito di servizio. Oggi sono pochi i servitori dello Stato,
piuttosto ci si serve dello Stato.
Moshè tornando dal Sinai va subito dal popolo; la sua famiglia, tutto quello che lo riguarda personalmente resta in secondo piano. Eppure la sua sorte è che quando il Signore decreterà il suo destino, morire fuori dalla Terra Promessa, nessuno parla in suo favore.
La sua umiltà si rivela anche quando Moshé rompe le Tavole della Legge. I maestri del Talmud vedono la rottura delle tavole come un gesto magistrale, letteralmente. Perché quando capisce che il popolo non ha intimamente rinnegato gli idoli, teme che anche le Tavole possano diventare un idolo, che il popolo possa vedere solo il contenitore e non il contenuto. Significherebbe la “monumentalizzazione” della Torà. “Noi ebrei” dice ancora Della Rocca “non amiamo i monumenti, i musei, le forme immutabili e stereotipate. Vogliamo invece le forme vive, vitali”.

Moshé non vuole la salvezza solo per sé, rinuncia alla sua grandezza personale, vuole stare con il popolo anche nel peccato, perché anche nella colpa si costruisce un progetto. Non è un santo, non è il salvatore, ma “solo” il nostro Maestro. Corresponsabilità. Stare con il popolo, sempre e comunque: è il gesto più umile. È la grandezza di un leader. Senza il popolo, quella del leader è un’autorità vuota.

Antonio Calabrò si è soffermato infine sulla differenza tra la lealtà e la fedeltà,  una differenza radicale.

“L’impresa è fondata sulla forza innovativa, sulla distruzione creatrice. L’attitudine di un leader è di seguire i cambiamenti. In fondo, trasformazione e produzione sono la stessa cosa. Innovazione, pensiero eretico –  e produzione, azione ripetittiva: questa è la sfida delle imprese, tenere unite queste due cose. Agnelli fondò la Fiat con un pensiero eretico, fare delle auto oggetti di massa.  Come Mattei… L’imprenditore è un eretico, pieno di dubbi, problemi, perché vive la fertilità delle trasformazione. Ricerca e innovazione. Mettere in dubbio le cose già acquisita. Torniamo alla filosofia, alla lezione di Popper, la falsificazione.

L’imprenditore deve saper lavorare su quello che non c’è, anticipare i bisogni. In Italia si fa ricerca anche con la capacità innovativa delle maestranze. Facciamo molta più ricerca pratica fuori dai laboratori.
L’attitudine al dubbio è fondamentale per un gruppo dirigente, insieme alla capacità di ascolto e all’ironia, sapendo creare una distanza critica dalle cose”.

Chi è rimasto in Egitto?

IMG_6119Seguito ideale della conversazione tra Rav Della Rocca e Antonio Calabrò, è stato poi, sempre all’Auditorium dell’Umanitaria, l’incontro organizzato dall’Associazione Hans Jonas “L’ebraismo di fronte alle nuove schiavitù. Chi sono gli schiavi oggi?”, con
Don Gino Rigoldi, Presidente dell’associazione Comunità Nuova Onlus; Alessandro Leogrande, Vicedirettore del mensile Lo straniero, autore, tra gli altri, di Uomini e Caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud; Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento  Istat, Tobia Zevi, presidente dell’Associazione e Gad Lazarov, consigliere della Comunità di Milano che ha moderato l’incontro.

Lazarov ha raccontato che cos’è l’associazione Hans Jonas e ha introdotto il tema partendo dall’Haggadà e da come ciascuno di noi debba considerare se stesso come personalmente uscito dall’Egitto, le dor va dor…. “Non è solo memoria storica ma l’invito a liberarsi dall’Egitto interiore, dai propri limiti. Mitzraim significa Egitto, ma anche ‘ristretto, piccolo, confine’. Dobbiamo andare oltre”.

Ma chi sono oggi i nuovi schiavi? immediatamente si pensa ai reclusi. Ma anche a chi oggi è sottoposto alle schiavitù metaforiche e purtroppo anche reali. Nel 2014 la schiavitù esiste ancora, e l’attualità ce ne dà dolorosa testimonianza.

Don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria, ha raccontato come la reclusione, in particolare dei minori, parta sempre da una visione di sé come “senza valore”. Oltre alla reclusione c’è oggi chi si trova nel “deserto, agli arresti domiciliari. Non è umanamente possibile vivere in contesti sociali così inadeguati. Manca un percorso di inserimento lavorativo e professionale. Abbiamo bisogno di collaborazione per far arrivare questa gente alla Terra promessa. È possibile fare diversamente. Altrimenti si torna in carcere. A San Vittore, in una cella per 2 persone vivono in 7. Questa è tortura. Sono persone in carcere per reati da supermercato. In carcere sta solo la povera gente”.
E ancora: “Se oggi si ragiona, si parla, li si ascolta, i ragazzi cambiano tanto! Ogni reato ha una sua storia, gli adulti hanno le loro responsabilità. Anche in Romania ho lavorato. Un direttore di una struttura penitenziaria per minori era un pedofilo, che ogni notte si portava in camera un ragazzino o una ragazzina. Con queste storie, che cosa ci aspettiamo?
La via è la misericordia, che pratica la cura e non si concentra sul giudizio. I ragazzi hanno il timore di valere poco. Hanno bisogno di strutture e di cultura, dell’educazione. Cerchiamo di fare formazione agli insegnanti…. Ma è un deserto, ci sono solo regole, giudizi. Manca la relazione tra le persone. Manca la vita di comunità. Noi adulti ci dobbiamo dare un progetto per questi giovani”, ha concluso.

Gadi Lazarov, ha ricordato: “Siamo all’Umanitaria di Prospero Moise Loria, il filantropo che volle questa realtà rivoluzionaria a Milano, con un lascito di 10 milioni di lire nel 1893, proprio per i corsi di formazione, per dare dignità attraverso il lavoro”.
Alessandro Leogrande ha parlato delle Schiavitù contemporanee. “Non semplice sfruttamento, ma vera schiavitù che esiste ancora. Numeri impressionanti: la riduzione in schiavitù e il traffico di esseri umani è nel mondo secondo solo al traffico di droga. Parliamo della tratta di donne e bambine. Ma anche schiavitù di lavoratori”.
Leogrande ha citatao il libro di Michael Walzer,  Esodo e rivoluzione.

“Il deserto va superato, con un percorso di liberazione. Walzer cita la schiavitù in Egitto dove gli ebrei erano sottoposti al lavoro forzato, cui erano ‘assoggettati con asprezza’. Anche oggi come ai tempi dell’haggadà i luoghi della schiavitù sono l’edilizia e l’agricoltura”.

Dalla storia del sindacato, dalla vita di Di Vittorio, sappiamo delle prime lotte, dello sciopero per fissare l’orario di lavoro “da sole a sole”. D’estate è un tempo lunghissimo ma almeno era fissato un limite. Oggi i nuovi schiavi sono tornati a prima di quel limite. Nella raccolta di pomodori si riceve una paga di 3 euro a cassone, quando un uomo robusto riesce a farne al massimo 6 al giorno. E chi sono i nuovi aguzzini di questi nuovi schiavi? I caporali che oggi non stanno più nelle piazze del paese ad aspettare i braccianti, ma li reclutano via internet nei Paesi di origine, Polonia, Romania… E poi, giunti in Italia, le condizioni sono ben diverse da quelle promesse. Sequestro dei documenti, paghe da fame, ricatti con lo spettro del reato di clandestinità. Anche per le schiave del sesso, stessa storia di ricatti, violenze e umiliazioni. “Il Caporale sfrutta, ma non solo, governa la vita 24 ore al giorno. I nuovi braccianti, che hanno sostituito quelli che avevano lottato per emanciparsi, sono extracomunitari senza diritti e senza potere, schiavi. I nuovi caporali sono ‘caporalato etnico’, appartengono agli stessi Paesi di provenienza degli immigrati. E’ una economia degenerata, funzionale ai piccoli proprietari ex braccianti …’Chi è stato in Egitto e si è dimenticato di essere stato in Egitto'”.

Linda Laura Sabbadini ha parlato invece dello sfruttamento delle donne. “Se ne parla di più o ce n’è di più? C’è anche la vera riduzione in schiavitù per prostituzione. E la violenza sulle donne di cui finalmente si parla che pone problemi di liberazione da queste situazioni. La violenza di per sé  non è ‘schiavitù’ vera, fisica, ma è durissima da sconfiggere, perché strutturale”. Le nuove schiave del mondo contemporaneo sono le donne che subiscono la tratta a fini sessuali, ma c’è anche la coercizione a fini di sfruttamento lavorativo nel mondo agricolo e per mendicare. Vulnerabilità e debolezza femminile si combinano per ridurre in schiavitù. Anche in questo caso, il reato di clandestinità è un’arma di ricatto verso queste donne. “Il reato di sfruttamento sessuale implica che ci sia una domanda. Ci vuole consapevolezza di questa complicità”, ha detto Sabbadini.
“Non possiamo ancora dire se il fenomeno della violenza sia in crescita. L’ultima
indagine è del 2006. Alla fine del 2014 ci saranno dati nuovi. Le denunce sono il 5% del totale.   Potrebbero essere aumentate ed esserci meno sommerso. L’Istat ha fotografato anche il sommerso mai denunciato perché garantiva l’anonimato.  Si vedono i femminicidi. Ma anche qui si deve valutare. 150 in un anno, è il numero, fisso da decenni. Ma si devono guardare i tassi. Il tasso di omicidio sulle donne non si smuove da decenni, più o meno è una linea piatta. Gli omicidi degli uomini sugli uomini sono crollati negli ultimi trent’anni; sono gli omicidi della criminalità organizzata, mentre quelli contro le donne restano stabili, perpetrati sulle donne  in quanto donne, mogli o ex”.

Durante tutti questi anni non ci si è mai dotati di strumenti adeguati per combattere il dominio maschile preteso sulle donne, ad ampio spettro, di lungo periodo. Si devono fare i conti con la cultura sessista che esiste in questo Paese. “Va detto che è difficile costruire il
percorso di liberazione femminile, tendenza mondiale. Se i figli assistono alla violenza, hanno un’alta probabilità di diventare vittime, le femmine, violenti, i maschi. È un’evidenza scientifica. Si sta già costruendo il presupposto della violenza del futuro. Questo è in contraddizione con quello che pensano le donne stesse. Sperano che la violenza diminuirà, che il compagno cambierà. Temono la perdita del modello paterno per i propri figli. È un problema perché invece la violenza è sempre in crescendo. E si trasmette”.

Il fenomeno è strutturale.  È trasversale nelle classi sociali e tra nord e sud. Le differenze sono solo nelle denunce. Più colte sono le donne e denunciano di più. E’ necessario anche qui, come per i giovani nelle carceri e come per i lavoratori, costruire dei percorsi di liberazione. Non possono essere azioni sporadiche ma di tipo culturale.

IMG_6112A Tobia Zevi, presidente dell’Associazione Hans Jonas, le conclusioni.

“In un momento come questo dobbiamo provare a far passare messaggi che spesso non passano. Occasioni.
Come per il Giorno della memoria che abbiamo allargato oltre la Shoah, parlando dei Rom, degli Armeni, del Rwanda, degli omosessuali…, oggi la Hans Jonas ha voluto parlare di chi  è ancora schiavo. Esiste ancora nel mondo la schiavitù. Chiamare le cose con il loro nome, non inflazionare il termine, ma la schiavitù c’è. Pesach rappresenta la liberazione. Ma che cosa significa? Eric From, in Fuga dalla libertà parla di ‘Libertà da’ e ‘Libertà di’. Che cosa fare della libertà. Ci si rende conto di essere soli a prendere decisioni, a essere responsabili. Anche nella società digitale ci sembra di essere più liberi e più potenti. Ma non è aumentata la capacità vera di incidere sulla realtà.

L’esodo biblico è una epopea di liberazione e mostra l’esigenza di un comportamento morale. Michael Walzer, in Esodo e rivoluzione, dice che quasi tutti i leader rivoluzionari hanno ripreso le immagini e i topoi dell’Esodo. Il deserto. I 40 anni per liberarsi dalla schiavitù e dal loro ‘Egitto’ interiore. La liberazione è un lungo percorso, da fare insieme.