di Fiona Diwan
«La celebrazione dell’uscita dall’Egitto nella festa di Pesach ha come momento fondativo la lettura della Haggadà. Riflettere sulla libertà significa ragionare sul raccontare. Come ci insegnano numerose storielle chassidiche narrate da Gershon Sholem e da S.Y. Agnon, raccontare e fare sono la stessa cosa e non a caso l’ebraico usa lo stesso termine, DAVAR, per dire parola e cosa. Perché raccontare aiuta ciascuno di noi a costruirsi, a creare una identità. Attenzione: non solo quella dei nostri figli ma soprattutto la nostra identità. Insomma non basta sapere, non basta conoscere le cose: dobbiamo imparare a narrarle, a pronunciarle, solo così possiamo capire e salvarci. Pesach significa saltare, andare oltre, ma vuol dire anche pe-sach, bocca che parla, bocca che racconta», spiega Rav Benedetto Carucci Viterbi, primo relatore della giornata di domenica, preside delle scuole della comunità ebraica di Roma, docente di Esegesi biblica e Letteratura rabbinica al Collegio Rabbinico Italiano, vice direttore del Corso di Laurea in Studi Ebraici del Collegio Rabbinico Italiano e professore invitato presso la Pontificia Università Gregoriana.
Da bravo italianista, Carucci cita un grande storico della letteratura, Michail Bachtin, e la mitica categoria che Bachtin introduce: il romanzesco. «Il romanzesco è ciò che avvicina gli accadimenti, che rende vicini a noi gli eventi lontani, che costruisce un mondo lontano nel quale ritrovarsi, ritrovare identità e operare un cambiamento, esteriore o interiore che sia. La Haggadà di Pesach è proprio questo: inizia con dei fatti, con una narrazione e finisce che ciascuno deve trasformarsi in qualcosa di diverso. La grandezza di quel racconto è la sua struttura aperta, capace di trasformarci, di ri-esperire l’uscita dall’Egitto e l’esperienza della liberazione. E’ l’idea della parola che crea, della parola che ci rende quello che siamo. E a pensarci bene la stessa Creazione è racconto puro: Dio crea parlando, Dio parla creando».