di Ester Moscati e Roberto Zadik
Anche quest’anno, la Comunità ebraica di Milano, grazie alla collaborazione e all’organizzazione della casa editrice Giuntina di Firenze, ha partecipato alla grande festa del libro della Città, BookCity Milano, che ha riempito di parole, letture, incontri con gli autori, nei luoghi più disparati (dai taxi ai teatri) la capitale culturale d’Italia. La formula scelta, nella Sinagoga di via Guastalla, è stata quella dell’adozione di un libro, edito dalla Giuntina, da parte di diversi oratori. Si sono avvicendati così Rav Alfonso Arbib, David Bidussa, Rav Roberto Della Rocca, Gheula Canarutto Nemni e Gad Lerner, mentre Daniela Di Veroli ha spiegato l’ABC dell’ebraismo.
Il titolo scelto per questa edizione, nato -come spesso le buone idee- da un brainstorming telefonico, da Schulim Vogelmann e Francesca Bolino della Giuntina, è stato “Keep Calm and Keep Jewish, Storie utili per leggere il mondo”.
«Il libro non è compiuto finché non viene letto – ha esordito Daniele Cohen, assessore alla Cultura della Comunità, aprendo l’incontro in Sinagoga. È una parafrasi delle parole che Omer Meir Wellber, direttore d’orchestra israeliano, tra i protagonisti del Festival Jewish and the City, ha riferito alla musica. – Ma come la musica esiste solo se viene ascoltata, un libro esiste, e cambia, vive, si compie, attraverso la lettura e il lettore».
«Book City ha successo perché è una manifestazione diffusa, segue la formula vincente di rendere il lettore protagonista, e la nostra partecipazione è convinta ed entusiasta» ha concluso Cohen.
«Keep calm and keep Jewish – ha detto Schulim Vogelmann – trae origine dello slogan Keep calm and carry on, partorito dall’ufficio di propaganda inglese per tenere alto il morale durante la Seconda guerra mondiale. E anche oggi c’è la necessità di mantenere il morale alto. Come? Fornendo appigli attraverso le storie, nonostante la crisi. È la filosofia della nostra casa editrice. Leggere per imparare cose utili a formarsi una propria visione del mondo. Grazie anche alla libreria Claudiana che ha allestito un Bookshop e grazie agli amici che vengono a parlare dei libri» ha concluso Shulim.
Rav Alfonso Arbib, padrone di casa nella Sinagoga di via Guastalla, ha salutato l’iniziativa. «Adottare un libro è una bella idea, ognuno ha dei libri che ha adottato nella sua vita, è importante. Per me il libro è soprattutto uno strumento per vedere il mondo in maniera un po’ diversa da prima, quando dice qualcosa di non banale. Siamo sommersi da banalità, che possono essere rozze o colte, che vengono continuamente ripetute; un libro deve invece essere capace di spiazzarci, almeno un po’. Un libro che ha fatto questo a me è Zahor di Yerushalmi. Mi colpì perché mandava all’aria cose che avevo sentito tante volte, per esempio l’idea che la storia fosse fondamentale per l’ebraismo. Mentre Yerushalmi diceva che l’ebraismo ha un rapporto molto conflittuale con la storia. E anche con la memoria. Un po’ di cose cominciano a traballare». Attraverso esempi di episodi accaduti nella storia ebraica, e di come i Maestri trassero insegnamento da essi, Yerushalmi insegna che la memoria non si consolida per “accumulo” di fatti, ma per collegamenti, per associazioni mentali. Ed è nel saper cogliere i legami tra le cause e gli effetti degli eventi che si consolida e tramanda la memoria. «Ecco lo scopo del libro- ha concluso Rav Arbib – , mettere in discussione ciò che sappiamo».
La lectio di David Bidussa, che ha “adottato” il libro di Hanna Arendt, La banalità del male, ma anche il testo-intervista, pubblicato dalla Giuntina, Eichmann o la banalità del male Hannah Arendt e Joachim Fest ha ricordato che Anne Frank, Edith Stein e Simone Weil, nonostante il loro tragico destino, perfino nelle loro ultime pagine continuavano ad avere fiducia nel futuro dell’uomo e nella sua capacita di essere buono. Hannah Arendt no, per lei la bontà, la scelta del bene, era una sfida, non una certezza. Il vero titolo del suo libro sul processo ad Eichmann era semplicemente Rapporto da Gerusalemme del 1963 «Con questo titolo, Arendt ha voluto dire: Io “osservo” non “teorizzo”. Hannah ha bisogno di dare dimensione fisica a una storia con la quale non sa fare i conti. Osserva come si muove Eichmann nella gabbia di vetro al processo. Il processo di Gerusalemme andava prima di tutto raccontato. Lei ha osservato quello che poi noi abbiamo visto nel film Lo specialista. Hanna Arendt descive un signore che continuamente mette in ordine gli oggetti che ha sul tavolo. Che è pieno di tic facciali. Quel tavolo che ha di fronte è come la scrivania del suo ufficio, dove pianificava la partenza dei convogli per i campi.
Ma c’è un aspetto che Hannah Arendt non coglie. Eichmann scrive continuamente appunti, memorie, 4000 fogli che poi furono depositati a Yad Vashem e a Parigi sono presentati in una mostra, “L’uomo che pensa dentro la gabbia di vetro”. Eichmann ha guidato il suo avvocato durante tutto il processo, gli ha mandato messaggi, su cosa doveva dire e su come doveva dirlo. Ne viene fuori un uomo molto meno incolore di quello che Arendt descrive nel suo libro.
Hannah Arendt ha invece perfettamente capito la “banalità del male”. E nell’intervista a Fest dice che parlare della “banalità del male” significa domandarsi alcune cose e riflettere su alcuni concetti. Prima di tutto il concetto di obbedienza. Quando obbedisci, non ti fai domande su ciò che fai ma solo su come lo fai, cerchi di essere efficace nell’esecuzione. Poi c’è il concetto di responsabilità. Alle domande, Eichmann risponde che era una parte non decisionale dell’agito. Il suo compito era “semplicemente” quello di far funzionare la macchina. Infine, quello che Hannah Arendt considera la parte debole del processo, che trae dal concetto di giustizia. Se porti un uomo in tribunale, che accusa formuli? Ti riferisci a ciò che ha fatto lui o al meccanismo in cui lui si è mosso?
L’idea fondamentale è che l’obbedienza ti mette di fronte ad una strada, e a ogni bivio devi decidere. Ciascuno decide. C’è quindi la responsabilità di ciascuno in ogni azione».
L’interessantissima lectio di David Bidussa ha toccato altri temi, legati al concetto di responsabilità: quella dei consigli ebraici, per esempio. Anche loro hanno fatto delle scelte con la consegna delle liste delle persone da deportare. Non tutti hanno fatto le stesse scelte: c’è anche il responsabile del Ghetto di Varsavia che si uccide per non fornire le liste ai nazisti. C’è sempre la scelta, anche se terribile. Quindi c’è sempre la responsabilità dell’individuo. «Anche qui, negli anni ’90, nel sistema Tangentopoli. Decidere come stare all’interno di un sistema è un universale mentale. Non siamo fuori dalla storia, il problema è come ci stai dentro?». Bidussa ha raccontato infine l’esperimento di Stanley Milgram, psicologo americano. Un altro terribile esempio di come sia semplice eseguire gli ordini. E come persone comuni possano macchiarsi delle peggiori atrocità “coperte” dall’alibi dell’obbedienza agli ordini superiori è un fatto analizzato anche ad Amburgo, nel 1961, da Christopher Browning che sottopose ad analisi un gruppo di 400 poliziotti, colpevoli delle stragi nell’Est. Di tutti i partiti, anche di area socialista, socialdemocratica, solo il 20 per cento veri nazisti. Tutti obbedivano; nel gennaio del 1940 compirono stragi e seppellirono nelle fosse comuni 250.000 morti. Nel 1945 tornano a fare i poliziotti. Qualcuno venne denunciato, 15 anni dopo, e in tribunale tutti testimoniano che avevano seguito la legge. Banalità del male. Essere conformi alla legge, qualsiasi essa sia. «Si chiese ad uno di questi poliziotti ‘perché hai sparato alla madre e ai bambini?’ Rispose: ‘Tentai di uccidere solo bambini, perché senza la madre il figlio non avrebbe comunque potuto vivere, era consolante per la mia coscienza’. L’assassino usò l’espressione ‘redimere’ invece di uccidere i bambini, come se l’assassino fosse un messia che redime». La banalità del male è l’incapacità di farsi delle domande su quello che si sta facendo. «Chiudo con Zygmunt Bauman: disse ‘quando ero studente avevo un professore di antropologia che ci raccontò dello scheletro fossile di una creatura umanoide invalida; aveva subito una frattura da piccolo, ma era vissuto fino a circa trent’anni. La conclusione era che lì doveva esserci stata una società umana’, perché il debole era stato protetto».
La stella di David, storia di un simbolo di Gershom Scholem è il libro adottato da Rav Roberto della Rocca: «In tutta la Bibbia troviamo scritta la parola libro, sefer. “Questo è il sefer toledot…” la genealogia di Adamo. Un rav interpreta: “Ze sefer, qual è il vero libro? Le toledot”. Un libro è soprattutto le note a margine. È una genealogia che generea, che produce pensiero e altra scrittura. Ecco perché per noi ebrei la tradizione è un sistema culturale che ha sostituito un centro fisico; per secoli abbiamo vissuto dentro un sistema culturale che è la “Torà she bealpè” la Torà orale. Invece di essere scritta in un luogo fisico, su un architrave o un mausoleo, è una tradizione le dor vador, di generazione in generazione. Si mette sempre tutto in discussione e si trova sempre un pensiero inclusivo. Le interpretazioni diverse possono essere entrambe incluse nella tradizione. Anche la letteratura ebraica è talmente poco autoreferenziale che mette in discussione anche i simboli radicali. Gershom Scholem scrive La stella di David, storia di un simbolo poco dopo la fondazione dello stato di Israele che ha adottato come bandiera il Maghen David con le strisce azzurre, che rappresenta il Tallit, il manto di preghiera. Scholem mette in discussione l’ebraicità del simbolo, dice che la stella a sei punte non ha in realtà niente di ebraico. Che cosa è un simbolo? Ha’arez scriveva in quei giorni, a proposito della bandiera: “… la stella che ieri stava sui cappotti di chi doveva essere incenerito, oggi sta sulle ambulanze di Israele”. Scholem scrive che il sigillo di Salomone, scudo di David, solo nell’800 nel ghetto di Praga fu chiamato Maghen David e adottato poi dal primo congresso sionista. Il libro suscitò un serrato dibattito. Era un simbolo magico? Simbolo di un popolo? Scholem dice che il simbolo prettamente ebraico è la menorà a sette braccia, da cui emana la luce spirituale. Perché il Maghen David è diventato il simbolo degli ebrei? Il simbolo è il luogo originale della connessione. Dal greco “Syn ballo” che significa “connesso insieme”, contrapposto a “diaballein”, disgregare, da cui deriva la parola “diavolo”.
Nella tradizione ebraica, il doppio triangolo che compone la stella a sei punte è anche la trascrizione dello stesso nome David. La Daled in ebraico antico era simile alla delta greca, un triangolo. Le due Daled della parola David sono quindi due triangoli. O forse era semplicemente la forma dello scudo (maghen) di David con due triangoli incrociati.
È impossibile dare una definizione unica dell’identità ebraica. Ma possiamo individuarne tre elementi principali: la Torà, il popolo, la terra di Israele. Non può esserci un ebreo scollegato da uno di questi elementi. Il discorso che Rosenzweig espone ne La Stella della Redenzione, presenta questi concetti. C’è un rapporto orizzontale e verticale, verso gli uomini e verso Dio. C’è il Sogno profetico di Giacobbe, che lottando con l’angelo diventa Israele. Giacobbe sogna una scala, radicata a terra la cui cima raggiunge il cielo e gli angeli scendono e salgono dalla scala. Importante perché l’Ebraismo è anche una religione (re-ligare l’alto e il basso, terra e cielo). C’è una Dialettica inesauribile per portare spiritualità in terra e la pratica in cielo, cioè la materialità (rappresentata dal sesso e dal cibo che tanta parte hanno delle prescrizioni delle mitzvot) nella spiritualità. L’ebreo deve vivere la vita terrena nel segno della spiritualità. Lo stato di Israele, dopo 2000 anni che il popolo ebraico non ha avuto un elemento concreto, si è fondato sui valori più antichi cui si adatta la più moderna tecnologia. Come funziona? Israele è una sfida, mettere continuamente insieme antico e moderno, alto e basso. Il Maghen David è questo. Il problema è quando il simbolo sostituisce il contenuto. Diventa idolatria. Mosè di fronte al vitello d’oro rompe le tavole. Piuttosto che trasformare la parola viva di Dio in una pietrificazione, è meglio spezzarla. Quando sostituiamo il contenuto con il contenitore è un problema di feticismo idolatrico».
Dopo Rav Della Rocca, Daniela Di Veroli ha spiegato con capacità di sintesi e grande semplicità – che non è facile – l’Abc dell’ebraismo. Storia, riti, sinagoghe, una carrellata di oltre duemila anni di storia in Italia, le feste ebraiche, significati e valori che hanno incuriosito il pubblico presente.
Ha parlato poi la scrittrice e studiosa Gheula Canarutto Nemni introducendo il tema del chassidismo, adottando il libro di Martin Buber, Il messaggio del Chassidismo. Il chassidismo nacque grazie all’impegno del Bal Shem Tov nome che la Cannarutto ha tradotto per i presenti “signore dal nome buono” che come ha detto la studiosa «ha risvegliato le masse con la propria spiritualità, portando il messaggio delle lettere della Qabala. La Chassidut è lo studio di tutto quello che sta dietro alla Torah, del significato più profondo delle cose» ha proseguito la Canarutto «nasce in un periodo in cui gli ebrei non stavano molto bene e in quel momento arriva il Bal Shem Tov che racconta agli ebrei che quello che vedono non è quello che c’è e che nascosto c’è un significato diverso da quello che ci appare». Insegnamenti e tematiche del chassidismo che il pubblico ha ascoltato in silenzio con aria partecipe mentre la studiosa spiegava vivacemente l’importanza della concentrazione nello studio e la vicinanza di Dio. La studiosa ha continuato specificando che è «fondamentale capire che Dio si rivela qui, nella materialità e il nostro compito è cercarne la presenza in questo mondo facendo il nostro dovere e servendolo, anche se abbiamo lavorato quindici ore al giorno e siamo presi dalle nostre occupazioni. Come per la zedakà, il dieci per cento, la decima, bisogna dedicarlo a questa ricerca». Tanti argomenti e spiegazioni nel suo discorso in cui «nelle nostre azioni possiamo scegliere fra il Bene e il Male e la spiritualità giace nella materia, in quello che facciamo ogni giorno». Citando il fatto che non possiamo giudicare le azioni altrui e che ogni persona ha in sé un grande potenziale, per poter rispettare le mitzvot e servire Dio, la studiosa racconta della storia di un Rav che anche se sembrava non facesse niente di spirituale perché faceva ginnastica, mangiava e dormiva, invece le sue azioni nascondevano un grande valore ed era per avere la forza di difendere gli ebrei della sua città dall’antisemitismo. Continuando nel suo discorso, la Cannarutto ha raccontato aneddoti e storie chassidiche, come il fatto che in ogni verso della Torah ci siano mille interpretazioni e che in qualsiasi momento possiamo decidere di tornare verso Dio essendo dei Baal Teshuvà e quelli che «tornano hanno più valore degli zaddikim che sono giusti dalla nascita e non hanno dovuto fare sforzi per tornare sulla strada giusta». Riallacciandosi all’argomento iniziale, sul ruolo femminile nella tradizione chassidica, la docente ha specificato la centralità del ruolo della donna non solo nella chassidut ma anche nella tradizione ebraica in genere, perché ad esempio anche per dare la religione a un figlio, secondo la legge halakhica, conta la madre e quindi le donne sono molto importanti. «Le donne» ha continuato la Canarutto «hanno un risveglio dal basso, ovvero applicano le mitzvot a livello pratico mentre gli uomini si risvegliano dall’alto, hanno le idee e sono come le lampadine che si accendono dall’alto». La Canarutto ha ricordato a questo proposito anche l’importanza della festività di Channunkà collegandola ai personaggi di Yehudà e di Tamar della Torah. Ghematria, simboli che rimandano al candelabro e all’ampolla di olio, facendoci riflettere sul miracolo di Chanukkà e sulla natura umana. «Deve essere molto forte in noi la ricerca del bene, della luce e il periodo di Channukkà è un momento di grande risveglio spirituale per l’anima ebraica, dopo un periodo in cui a due mesi dal Kippur e da Rosh Hashanà molti di noi si dimenticano della spiritualità, che invece a Channukkà recuperiamo perché ogni persona ha dentro di sé sia una spinta molto forte verso il Male che anche e soprattutto verso il Bene».
Gad Lerner ha chiuso le lezioni di questo affascinante pomeriggio in Sinagoga, adottando il testo di Marek Edelman Il Ghetto di Varsavia lotta.
Sono passati settant’anni da una pagina storica dolorosa e eroica come quella della Rivolta del Ghetto di Varsavia, in cui il 19 aprile del 1943, per coincidenza era Pesach, festa della libertà, un gruppo di ebrei sfidò nientemeno che l’esercito nazista per impedire l’invasione del Ghetto e la “liquidazione”, ovvero la deportazione e lo sterminio della popolazione ebraica del quartiere. Un atto di grande coraggio e eroismo che contrasta l’idea diffusa che gli ebrei non opposero resistenza alla follia nazista e alle deportazioni della Shoah. A testimoniare la memoria di quei giorni, l’intervento del famoso giornalista e scrittore Gad Lerner, che sul podio della Sinagoga di via Guastalla ha concluso in bellezza parlando del libro di Marek Edelman Il Ghetto di Varsavia lotta editore Giuntina, curato dal giornalista Wlodek Goldkorn. Ironico e efficace, Lerner ha riassunto davanti a un vasto pubblico la figura controversa e affascinante di Edelman, stimato medico cardiologo ebreo polacco che per tutta la sua vita fu «laico e ironico, un vero anti eroe che descrisse con modestia e smitizzando al massimo quel periodo. Una volta mi disse “Preferisco parlare di come curo i miei pazienti ogni giorno che raccontare questo, è più interessante”. Brusco, modesto e sornione, Edelman, nato nel 1922, rimasto orfano a soli 14 anni e scomparso il 2 ottobre 2009 a 87 anni», che Lerner ricorda nella sua lontananza dalla pratica religiosa «Con tutto il rispetto per la sacralità di questo luogo provo una strana emozione a parlare qui di Edelman che nella sua vita non mise quasi mai piede in una Sinagoga e per tutta la sua vita si oppose ai mistici e ai chassidim. Detestava la retorica e le gerarchie militari e anche se fu vicecomandante della suo gruppo (il capo era Mordechai Anielewicz) descriveva con sarcasmo i suoi compagni. “Eravamo un piccolo gruppetto di centocinquanta, al massimo duecento persone con delle armi arrugginite in pugno, che il primo giorno in cui i tedeschi ci attaccarono non capivamo neanche cosa bisognasse fare, il senso di quella necessità. Poi realizzammo che dovevamo ammazzarli, sfogarci per tutte le sofferenze e le angherie subite”». Nella sua rievocazione del personaggio sicuramente complesso di Edelman, Lerner ha sottolineato vari dettagli caratteriali e storici specificando che visse a Lodz nella sua casa con la moglie in maniera semplice e senza enfasi «stando vicino alle tombe dei morti in quella rivolta, senza esaltazioni neppure per il capo Anielewicz, una figura eroica di combattente nel Ghetto che non perdonò mai per essersi tolto la vita». Come ha ricordato Lerner, Edelman non fu né religioso né tantomeno legato in maniera particolare a Israele, come i sopravvissuti suoi commilitoni che emigrarono nello Stato ebraico mentre egli restò in Polonia, perché «bisognava combattere lì e non fuggire, alla faccia dei polacchi e del loro antisemitismo» diceva Edelman «noi siamo ancora qui e dobbiamo dimostrarglielo» lo disse con gli occhi luccicanti e pieni di risentimento sottolineando che nonostante il 90 per cento degli ebrei polacchi morirono nella Shoah, sterminati nel lager di Treblinka c’era ancora un forte antisemitismo in Polonia. Come incontrò Gad Lerner, Marek Edelman e in che maniera i due si conobbero? A questo proposito, Lerner ricorda «L’ho conosciuto grazie a due miei amici che me lo presentarono, Adriano Sofri, negli anni di Solidarnosc e del colpo di Stato di Jaruzelski intorno al 1981 e il curatore del libro, Goldkorn scacciato dalla Polonia nel 1968 assieme ai suoi genitori con l’accusa di Sionismo. Edelman – ha proseguito il giornalista – non venne molto amato nello Stato di Israele e lasciò nella sua vita poche volte la sua terra e malvolentieri, vivendo prevalentemente nella periferia di Lodz». Personaggio scomodo e controcorrente, l’ultima volta che viaggiò fu proprio nel 1993 quando andò a Sarajevo a denunciare le atrocità commesse nella Guerra in Bosnia, non partecipò alla cerimonia ufficiale per i 50 anni dalla rivolta del Ghetto organizzata dalle autorità e organizzò in parallelo una manifestazione autogestita per ricordare quanto accadde in quello storico 19 aprile. Sempre nella stessa data, nel 2001 però, casualmente era il giorno di Pesach anche lì e c’era in Polonia il seder di Pesach, una delle feste più belle e allegre della nostra tradizione ebraica. Ma lui non partecipò a quella serata. In quel viaggio in Polonia, Lerner, ha evidenziato la gioia che ebbero i suoi cinque figli quando «hanno potuto stringergli la mano. Era un cardiologo ma non aveva cura di se stesso, nonostante la sua età avanzata, mantenne fino all’ultimo quello spirito combattivo e anticonformista che lo ha sempre contraddistinto protestando contro i discorsi di Radio Maria che in Polonia stava facendo di nuovo antisemitismo, nonostante non ci fossero praticamente più ebrei nel Paese. «Assieme – ha fatto sapere Lerner – abbiamo visitato vari luoghi, camminando dentro il Ghetto e visitando il Mila 18, i bunker e gli uffici nascosti di Anielewicz da dove gli ebrei riuscivano a superare, attraverso dei sotterranei, le mura del Ghetto entrando nella cosiddetta “parte ariana” della città. E ricordando altre importanti figure come quella di Shmuel Zeigelboim, altro membro influente del Bund che si suicidò come atto di protesta politico togliendosi la vita perché non ascoltato dai Governi polacchi, operando prima in patria e poi in esilio». Nella sua visita, Lerner ha visitato oltre al Ghetto «che all’epoca dei fatti del 1943 era molto piccolo e sovraffollato di persone» anche la Umschlag Platz un luogo di grande drammaticità, dove nel, 1988 venne costruito un monumento commemorativo. Da lì infatti secondo “l’operazione Reinhard” partivano i treni per le deportazioni degli ebrei verso il campo di concentramento di Treblinka che posero fine alla vita di quel Ghetto che venne poi distrutto dai bombardamenti incessantemente operati dalle truppe tedesche della Wermacht. Ebbene nella parte finale del suo discorso, Lerner ha evidenziato l’eroismo di Edelman e il suo tentativo di minimizzare quanto accaduto «avrebbe criticato anche me oggi probabilmente e la banalità di termini come strenua difesa con le armi in pugno, ma così è stato. Avrebbe detto che hanno combattuto con dei ferri vecchi, che non erano certo dei supereroi. Diceva che “Sono tutte esagerazioni e non c’è bisogno della retorica”. Confidava nell’intervento dell’uomo, Edelman, e nella responsabilità di intervenire e di agire, questo combattente e cardiologo» che come ha concluso Lerner fu eroe anche nei suoi modi da antieroe e «sono orgoglioso di avergli stretto la mano».