di Ester Moscati
Lo Shabbat non è una domenica che cade di sabato. Perché? Lo raccontano, lo spiegano, lo illustrano Haim Baharier e Vittorino Andreoli all’anteprima del Festival Jewish and the City, Shabbat Spazio al Tempo celebrata sul palco del Teatro Franco Parenti la sera di sabato 28 settembre. Un palco che, con un colpo di teatro, all’apertura del sipario ha svelato una perfetta tavola di Shabbat, con la candida tovaglia drappeggiata e coperta di fiori e frutta. Andrèe Ruth Shammah, perfetta padrona di casa ha introdotto e guidato gli oratori in uno scambio narrativo e introspettivo, come si addice a chi della psicologia e della psicoanalisi ha fatto la ragione della sua vita.
Prima però ha parlato l’assessore alla cultura della Comunità ebraica Daniele Cohen, felice, orgoglioso e un po’ stupefatto della risposta del pubblico all’invito della Comunità: oltre 700 persone hanno stipato la Sala Grande del Teatro mentre decine di persone nel foyer sono state ad ascoltare le voci amplificate di Andreoli e Baharier. “Abbiamo costruito questo evento con follia e coraggio, con questo titolo un po’ ammiccante che risponde anche alla tradizione dello humor ebraico”. E ancora “Grazie ad Andrèe che ci ha offerto il suo Teatro e con genio e generosità ci ha aiutati a pensare e organizzare questa avventura”.
La chiave di lettura psicologica e analitica si è concentrata quindi sui ricordi di Shabbat e Domenica. Andreoli ha narrato la sua infanzia di guerra, le campane del monastero che accoglieva il padre fuggiasco antifascista, il bollito del pasto festivo dopo una settimana povera di cibo nella campagna veronese. Infastidiva il giovane Vittorino l’intermediazione del clero e della gerarchia in quel rapporto con il divino che sentiva così impellente e necessario, così urgente.
Haim, ermeneuta, filosofo, allievo di Levinàs, ha narrato i suoi “incubi” di Shabbat, lui, polacco figlio di scampati alla Shoah, nella Parigi laica, dove anche il capo del Concistoire ebraico riteneva la religione un retaggio del passato, “Noi puoi fare qui ciò che facevi in Polonia!”.
E così, con il rimandarsi l’un l’altro la narrazione dei ricordi, la riflessione sulle Scritture, Baharier e Andreoli hanno dato vita a un confronto serrato e appassionante.
Lo Shabbat così come presentato nell’Esodo, il giorno del Riposo per un popolo non più schiavo. Ma anche il giorno il cui Dio ha cessato la Creazione e ha lasciato l’uomo libero da Sé. Una metaforica “uccisione del padre” che Andreoli legge nella Domenica, il giorno del riposo nella religione del “figlio”, contrapposta al sabato della religione del Padre.
Curioso anche il percorso letterario proposto, con Baharier che commenta e stigmatizza una enciclica di Giovanni Paolo II, nella quale si critica il “Sabato Farisaico”, e il ponderoso lavoro su Gesù di Benedetto XVI, con una visione in cui tutta la Torà viene assorbita e superata nel Cristo, “testi che non hanno un’ampia diffusione, ma che sono letti dai preti che a loro volta educano il popolo della chiesa!”; e dall’altra parte Andreoli che legge i testi di Haim, il Qabbalessico e il Tacchino pensante, ricavandone spunti di riflessione.
Anche il direttore scientifico del Festival, Rav Roberto Della Rocca, è intervenuto e ha ricordato come rispettare lo Shabbat sia rispettare se stessi e pretendere il rispetto per le minoranze, che rende tutta la società migliore.
Insomma, riflessioni e analisi, spunti da approfondire in questo Festival che si è aperto ufficialmente stamane, domenica 29 settembre, nel Tempio di via Guastalla alla presenza delle autorità cittadine e che proseguirà fino a martedì 1 ottobre.