di Fiona Diwan
Parole come frattali di un caleidoscopio. Parole che si scompongono e si sdoppiano in pensieri cangianti e infinitesimi. Idee-caramelle che una-tira-l’altra, in un goloso scivolamento verso nuove catene di significati. Concetti e frasi che come bocconi prelibati per un palato capriccioso, ci sospingono verso una gioiosa bulimia di assaggi. In un crescendo rossiniano di locuzioni, citazioni, riferimenti, letture, allusioni, significati occulti e rivelati, il filosofo, studioso di Torà e linguista francese Marc Alain Ouaknin ha ipnotizzato – e leggermente tramortito -, il pubblico milanese del Festival Jewish and the City: una performance oratoria a cui raramente avevamo assistito, un funambolismo circense nel lanciare in alto concetti per poi riacciuffarli al volo ma in una veste radicalmente trasformata. Uno spettacolo del sapere, un dispiegamento di erudizione “molto francese”, e la mercuriale sensazione di assistere a un teatro delle idee che, come in una scatola cinese, slittano continuamente l’una dentro l’altra, generando paradossi e ossimori, capriole semantiche, sorprendenti piroette concettuali, giravolte lessicali mai scontate. Marc-Alain Ouaknin è un cubo di Rubik che cammina, funziona a incastri.
Non che non fossimo abituati ai ribaltamenti folgoranti: maestri del Novecento come Levinas, Roland Barthes, Michel Foucault e molti altri, ci avevano ben allenato alla palestra delle infinite forme di reinvenzione di linguaggio e di significato. Ma Ouaknin, – che è nato a Parigi, ha 56 anni, ha scritto un numero impressionante di libri ed è professore all’Università di Bar Ilan -, ci propone qui lo schema del'”hidduch” ebraico, la ricerca di un continuo rinnovamento del senso e di una forma iper-dialettica di approccio al sapere. E’ innamorato di quel sobbollire dei pensieri tipico dei Bet HaMidrash e delle yeshivot del mondo ashkenazita, insegue la stessa vociferante sveltezza che abitava le scuole talmudiche dove, all’oscillazione ondulatoria dei corpi dei talmidei-yeshivot, facevano eco le loro dispute rigogliose e gorgoglianti, violente ma sempre brillanti.
Che cosa sono le parole del silenzio? E in che modo hanno a che fare con lo Shabbat ebraico, si chiede Ouaknin? Lo studioso risponde partendo dal compositore John Cage, e dal suo “4,33 minuti di silenzio”, un concerto muto, concepito per ascoltare il silenzio, dove musicisti, direttore d’orchestra e pubblico “ascoltano” le sonorità che si producono nella sala (starnuti, movimento di sedie, colpi di tosse, sospiri…), fino all’applauso finale del pubblico, fino all’inchino del direttore che posa la bacchetta sul leggio. Ma il silenzio è un’entità vera, che esiste di per sè o è solo la negazione del suono? Da John Cage a Maimonide, il passo è breve: il grande maestro di Cordova, nella sua “Guida dei perplessi” si poneva un quesito analogo, ovvero se l’oscurità fosse un entità a sè o non piuttosto la negazione della luce. In fondo, sostiene Maimonide, nella Genesi la parola oscurità non compare forse molto prima della parola luce? Così Ouaknin, ci rimanda al “respiro” del libro, allo pneuma che si sprigiona dalle biblioteche, alle parole spezzate che si indicano il loro vero senso solo quando è nascosto negli spazi bianchi. Dall’uomo di teatro Valère Novarina a Marcel Proust («un grande talmudista», sostiene Ouaknin), tutti ci dicono che le parole sono sapienti e ne sanno molto più di noi, a patto che vengano prese in mano con amore, a condizione di dire “io non so niente, ma so che posso dare fiducia al linguaggio, fidarmi delle parole”.
«In ebraico ci sono cinque modi che indicano il silenzio: Dumià-Demamà, la prima parola; poi Schtiqà -da sheqet-; ancora cheresh (che significa sordo e muto); e poi ilem (muto); e infine rashà (tacere qualcosa col silenzio, tacere un segreto). Io parlerò solo di “Demamà”, la prima di queste parole che vi ho indicato. In ebraico le parole sono sempre anfibie, hanno sempre ALMENO due vite, due significati. Nell’anfibiologia c’è un grande godimento semantico, lo stesso che troviamo nel witz, nel doppio senso e nel motto di spirito, quell’umorismo ebraico tipico degli shtetl e del mondo ashkenazita. La parola “Demamà”, silenzio, rimanda alla parola sangue, Dam, a indicarne la sostanza vitale e fondante dell’Essere, e l’importanza che lo Shabbat attribuisce al silenzio. Ma la parola Dam, sangue, rimanda al verbo Domè, somigliare, rimanda a una forma di somiglianza. Con chi? Con la trascendenza e con il divino. Senza contare poi quella meravigliosa espressione che troviamo nella Torà, “Kol Demanà Dakà”, una voce di sottile silenzio, la voce che parla nel fine silenzio. Non è straordinariamente poetico? Il silenzio, il sangue, la somiglianza con la trascendenza sono così intimamente legati tra loro», spiega Ouaknin.
«Come ci dice il filosofo Ludwig Wittgenstein, dobbiamo ripulire le parole, ripulire il termine silenzio. Che quindi non ci apparirà più come l’assenza di rumore ma come qualcosa che ci fa sentire altro, altre voci. Nessuna cosa è mai rinchiusa in se stessa, e Proust il talmudista lo sa bene quando con la sua celebre madeleinette si è inventato la sinestesia, ovvero lo slittamento di ciascuno dei nostri sensi l’uno nell’altro. Sapeva che il silenzio è mettere in relazione le cose, che il silenzio è la carne del mondo, è l’ostetrica che mette al mondo le relazioni invisibili che sono tra noi e che noi non vediamo, come dicevano Merleau-Ponty e prima di lui Spinoza. Così, appunto, che il silenzio diventa la carne del mondo ed è sostanza di tutte le cose».