di Anna Lesnevskaya
Avvertiti dai poliziotti, nascosti dai negozianti nel retrobottega, ricoverati in ospedale come finti malati. In questi e in diversi altri modi molti ebrei italiani sono riusciti a salvarsi dai rastrellamenti scattati dopo l’armistizio dell’8 settembre, mentre altri 7mila furono arrestati e deportati nei campi di concentramento nazisti. “Gli ebrei devono molto alla loro capacità di affrontare le situazioni di emergenza, ma due terzi non avrebbero potuto sopravvivere senza aiuti altrui”, ha detto la storica Liliana Picciotto presentando al Memoriale della Shoah, nell’ambito del festival Jewish in the City #150, i risultati del progetto “Memoria della Salvezza” della Fondazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec).
Il team del Cdec guidato da Liliana Picciotto ha lavorato per otto anni, riuscendo a determinare la sorte di 10mila ebrei italiani durante l’Olocausto. La ricerca si è basata su fonti preesistenti, come diari e archivi storici. Inoltre sono state raccolte 600 testimonianze audio-video sulle modalità con cui gli ebrei si sono salvati. Questo materiale ricchissimo ha dato vita alla mostra “Memoria della Salvezza: i volti e le storie” inaugurata al Memoriale della Shoah sempre nell’ambito del festival. Fotografie di alcuni testimoni della salvezza legati al territorio lombardo corredate da brevi citazioni, ma anche oggetti che magari li hanno accompagnati in fuga fanno rivivere al visitatore i sentimenti di apprensione, terrore e speranza dei protagonisti di queste storie straordinarie.
Tanti ebrei, soprattutto quelli milanesi, tentarono la fuga verso la vicina Svizzera e 4005 ci riuscirono. Anche se non era facile: bisognava avvicinarsi alla frontiera senza farsi arrestare sul treno, non dare nell’occhio scendendo, trovare contrabbandieri e avere denaro per pagarli, senza essere respinti dagli svizzeri, ha spiegato la Picciotto. Le campagne non erano sicure a causa di continui rastrellamenti alla ricerca dei partigiani e, in fin dei conti, la soluzione migliore era disperdersi nelle grandi città.
A Roma 4mila persone – ebrei, ma non solo – trovarono rifugio nei conventi. Un caso a sé rappresentò Pitigliano, dove molte famiglie si rifugiarono dai contadini o nelle grotte di tufo. Gli ebrei torinesi beneficiarono dell’ospitalità della popolazione delle valli alpine, in particolare delle valli valdesi. “La Shoah fu un emergenza materiale e morale in cui ognuno giocò una partita. – ha sintetizzato la storica del Cdec. – Questa storia ci insegna che le emergenze umanitarie ci riguardano tutti e nessuno può chiamarsi fuori”.
“Le principali modalità con cui si sono salvate le persone sono state il cambio di domicilio, il cambio di identità e la fuga in Svizzera”, ha spiegato Chiara Ferrarotti del team del progetto “Memoria della Salvezza”. Tutti i dati raccolti dai ricercatori sono stati inseriti in un database enorme che ha permesso di elaborare le statistiche. Uno degli aspetti più interessanti, ha detto ancora la Ferrarotti, sono le relazioni sociali tra soccorsi e soccorritori che fanno capire la specificità di luoghi diversi. Così a Roma si hanno tantissimi casi di aiuto tra vicini, e ciò dimostra come un certo tipo di vivere influì sulle modalità della salvezza.
Per trametterci le emozioni del vissuto, la memoria ha bisogno dei testimoni, e così l’incontro si è concluso con tre racconti dei salvati.
“Io avevo 13 anni. Eravamo sfollati a Como, mio padre, l’ultimo ebreo alla Edison, tornò a casa da Milano il 17 settembre del 1943 e ci disse che dovevamo fuggire immediatamente. Io giocavo con gli amici sul Monte Baradello e solo per caso tornai a casa a recuperare la borraccia. Questo mi salvò la vita. Riuscimmo ad attraversare la frontiera svizzera qualche minuto prima che scattasse il coprifuoco”, ha raccontato Aurelio Ascoli.
La famiglia di Emanuele Cohenca sfollata in Brianza fu avvisata da un’ex domestica in tempo per sfuggire ad un convoglio partito da Como per arrestare gli ebrei. Ritornati a Milano erano dapprima aiutati dalla famiglia della segretaria del padre di Emanuele e poi dai suoi clienti. Furono poi denunciati, ma ancora una volta riuscirono a sfuggire per un caso fortunato e arrivarono sani e salvi alla fine della guerra, per salutare l’ingresso della Brigata Ebraica in Piazza Cinque Giornate.
David Misrachi, i cui genitori arrivarono a Milano dalla Turchia negli anni ’20 – suo papà commerciava in tappetti – fu affidato dalla madre, che voleva salvare almeno il figlio maschio, a una portinaia di Sesto San Giovani e poi, quando la sua famiglia fu denunciata, mandato al Lago di Como dove sopravvisse fino alla liberazione sotto falso nome, ricongiungendosi dopo con la famiglia, anch’essa rimasta incolume. Ha ricordato con commozione come dopo la liberazione i soldati della Brigata Ebraica lo portarono a Selvino con altri bambini e come poi rivide alcuni di questi militari, prestando lui stesso servizio nell’esercito israeliano.
Queste e tante altre storie di salvezza si potranno leggere nel volume che riassumerà la ricerca di Liliana Picciotto e del suo team, la cui uscita è prevista per 2017.
@alesnevskaya