Musica, teatro, dibattiti, cucina, cultura… Al via, la tre giorni del Festival Jewish in the City #150

Jewish in the City

JITC#150Dal cantante Raiz col gruppo Radicanto al compositore Yuval Avital al musicista Enrico Fink. Da archi-star come Mario Botta a demografi come Sergio Della Pergola, da storici come Donatella Calabi a pensatori come Alberto Melloni, David Meghnagi, rav Roberto Bonfil , Mino Chamla. E poi i giornalisti, da Antonio Calabrò a Ferruccio de Bortoli a Donatella Caramore. Sono questi solo una piccolissima parte dei numerosi e prestigiosi ospiti che animeranno spettacoli, conferenze, dibattiti, teatro, corsi di cucina kasher, giochi per bambini del prossimo Festival Jewish in the city, dal 29 al 31 maggio prossimi. Tema intorno a cui ruoteranno gli eventi: i 150 anni della Comunità ebraica di Milano.

«La Comunità ebraica milanese ha una vicenda unica in Italia: in 150 di storia ha saputo dare vita a tradizioni e “linguaggi” molto diversi tra loro; la sua configurazione antropologica -mai davvero omogenea – è più simile a quella israeliana che non a quella italiana. Una Comunità più internazionale, fatta di contaminazioni e dall’incrocio di tantissimi linguaggi differenti, con una sua storia peculiare e unica  in un’esperienza ebraica molto omologata e subalterna rispetto alla maggioranza cristiana e alla Chiesa, come invece è accaduto per tutte le altre comunità italiane. Quella di Milano è una Comunità che è stata capace di assimilare tantissimo dal mondo circostante ma senza assimilarsi», spiega Rav Roberto Della Rocca, Direttore scientifico del Festival Jewish in the city durante la conferenza stampa di presentazione all’Umanitaria. Ecco quindi ai nastri di partenza l’appuntamento del Festival di cultura ebraica Jewish in the City, oggi giunto alla sua terza edizione, che avrà luogo il 29-30-31 maggio. Cuore tematico sarà quest’anno l’anniversario dei 150 anni della Comunità ebraica di Milano nella sua interazione con la città e con la sua storia, nonché con le diverse anime e i flussi migratori che ne hanno contraddistinto la vicenda, un mondo ebraico confluito a Milano da ogni dove, dall’Ottocento al Dopoguerra ad oggi, unica Comunità ebraica italiana con una vocazione davvero cosmopolita e internazionale, e una storia imprenditoriale ed economica importante.

Una tre giorni ricca di eventi (73 relatori, 16 eventi, 8 spettacoli), che vede una massiccia partecipazione di istituzioni cittadine e enti ebraici (Adei, Benè Berith, Shorashim, Benè Akiva, Hashomer Hatzair, UCEI, CDEC, AME, Hans Jonas, Amici Università di Gerusalemme, Ass. Italia Israele, Federazione Sionistica). (Per l’intero programma definitivo e dettagliato www.jewishinthecity.it). Organizzato in pochissimo tempo, poco più di tre mesi, il Festival sarà disseminato in un mosaico di luoghi cittadini, dal Teatro Dal Verme al Teatro Franco Parenti, da Eatitaly Smeraldo al Cinema Anteo alla Fondazione Corriere della Sera, dalla Rotonda della Besana alla Sinagoga Centrale al Memoriale della Shoah, da Palazzo Marino all’Università Bocconi… «Questo Festival giunge a confermare un grande sistema di relazione con la città. È stato emozionante vedere come Milano e le sue istituzioni abbiano risposto con grande disponibilità alle nostre sollecitazioni. La Comunità ebraica è relativamente giovane. Non dimentichiamoci che Milano è stata per secoli una città proibita agli ebrei, città che ha aperto le sue porte solo con il Risorgimento e l’Unità d’Italia, diventando interessante poi con la Rivoluzione Industriale. Oggi, i luoghi ebraici, scuole e sinagoghe, vivono quotidianamente sotto la protezione della polizia, cosa che non accade né per chiese né per moschee. Ecco quindi il perché di questo Festival: per poter costruire un modello, un sistema di relazioni con la città che sia durevole. Vogliamo festeggiare i nostri 150 anni pensando ai prossimi 150 anni», spiega Gadi Schoenheit, Vice Assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano e Responsabile del progetto Festival Jewish in the city.

«Avevo già lavorato a Roma e in Puglia per altri eventi ebraici. L’idea di organizzare questo Festival mi ha entusiasmato immediatamente: un carotaggio diretto e profondo su quella che è la storia della città, un tema di riflessione sulla cultura ebraica che non è mai localistica o provinciale ma è storia civica. Per raccontare una memoria positiva nelle sue varie espressioni, imprenditoria, filantropia, cultura», spiega Cristiana Colli, co-curatrice del Festival. La Colli sottolinea l’importanza delle partnership, ad esempio quella con Il Corriere della Sera che quest’anno, non a caso, festeggia i suoi 140 anni. Una storia parallela che si fonda sulla costruzione comune di una cittadinanza e sull’essere compagni di una stessa sfida. «Un Festival che non è memoria ma è prospettiva, per seminare pensieri e opportunità. Uno standing alto nelle riflessioni proposte, con numerosi panel di dibattito, perché Milano è l’unica città davvero cosmopolita e internazionale d’Italia. Ad esempio, a Palazzo Marino, nel luogo della politica, si ragionerà sull’Essere Comunità nella Comunità; poi, importante, sarà la riflessione sul tema dell’innovazione non solo a proposito di start up ma come capacità di leggere i processi della modernità. Non è casuale il fatto che Milano sia gemellata con Tel Aviv, con un sistema di reti che unisce i luoghi fertili. Radici e ali: questo potrebbe essere il tema simbolico di questo Festival. Infatti, si ragionerà anche sulla memoria come progetto e su quale identità sia possibile oggi per la diaspora ebraica. Abbiamo invitato al Memoriale della Shoah un archi-star come Mario Botta per ragionare intorno al rito e al mito, e sullo spazio pubblico e simbolico del Memoriale».

«L’ebraismo non è religione, cultura, culto, etica… È un’identità complessa, multipla e polifonica, che sfugge a facili clichè e  a un mondo che ci vuole imprigionare in etichette semplificate», conclude Rav Roberto Della Rocca. «Il mondo ebraico risiede in Italia da più di duemila anni ma è sempre stato portatore di una cultura specifica. Da sempre siamo accusati di doppia identità, e ancor oggi a molti di noi viene chiesto “ma tu da che parte stai?”. Una domanda insensata. Ogni identità non è forse sempre sfaccettata? L’identità ebraica è fatta di duplicità, non c’è bianco e non c’è nero, c’è complessità, capacità di mettere insieme i tanti pezzi di cui ciascuno di noi è fatto. Non a caso, nella lingua ebraica, la parola “volto” esiste solo al plurale, panim, “volti”, perché ciascuno di noi è portatore di molti volti, tutti veritieri. E la parola panim, “volti”, rimanda a alla parola pnima, “interiorità”: volti come espressione di un’interiorità complessa, policroma, ricca. Mosè è il campione di tutto ciò: pensa e sente da ebreo, ma parla e si muove come un egizio. Noi siamo questa ambivalenza. E questa edizione del Festival Jewish in the city è il tentativo di far interagire i tanti pezzi di cui siamo composti».

(Per l’intero programma definitivo e dettagliato www.jewishinthecity.it).