di Ugo Volli
Girando ad occhi aperti per le nostre città si trovano continuamente fatti, dettagli, oggetti che ci interpellano, ci dicono o ci chiedono qualcosa sulla nostra identità personale e collettiva. Per quanto mi riguarda, spesso mi colpiscono dettagli che parlano di ebraismo. Non si tratta solo di sinagoghe ed edifici comunitari, ma di altri luoghi, persone, negozi. Ricordarli, scriverne, significa fare dei piccoli autoritratti collettivi. È quel che mi propongo in questa rubrica.
È ovvio per me partire dai libri. I libri sono la mia passione, la mia vita professionale, ma anche il simbolo collettivo più appropriato dell’identità ebraica. I negozi elettronici sono pieni di volumi che ci riguardano. Amazon.it elenca 3.199 libri alla voce “ebrei”, 3.201 per “ebreo”, 2.744 per “ebraismo”, 2.487 per “Israele”, 4.483 per “Torah”, 3.646 per “Talmud”. Quasi abbastanza per dare un titolo a ogni ebreo iscritto a una comunità italiana.
Ma queste sono tracce elettroniche, che restano troppo impalpabili per un selfie. Passeggando per la città invece io non riesco a non fermarmi davanti alle vetrine delle librerie, spesso entro per il piacere di curiosare, di accarezzare le copertine. Trovo sempre troppo – “so many books, so little time” è un a frase attribuita bizzarramente non a Umberto Eco ma a Frank Zappa… E fra questo c’è sempre un angolo di libri sull’ebraismo e su Israele. Per lo più stanno negli scaffali delle religioni: una divulgazione della Kabbalah accanto a una vita dei santi; una storia dei ghetti accanto al Corano.
Ma ci sono sistemazioni diverse. Ad esempio c’è una piccola libreria sul percorso che faccio per andare alla mia università, che ha un angolo di vetrina dedicato a ebraismo e Resistenza, con qualche sconfinamento nella storia contemporanea. Curioso, vero? Ma è chiaro, gli ebrei sono innanzitutto le vittime della Shoah e dunque stanno bene accanto alle cronache dei partigiani (purtroppo anche del fascismo…).
Peccato però che accanto a qualche bel libro della Giuntina, all’ultimo Calimani o all’economia delle start-up israeliane ci sia sempre un po’ di antisemitismo, più o meno autoinflitto. Una volta “L’invenzione del popolo ebraico” di Shlomo Sand, ora la faccia cavallina di Simone Weil sulla copertina del libro più antisemita scritto da un ebreo (a parte i vari Pappé, Sand e compagnia). Perché nell’immagine delle librerie, l’ebraismo confina sempre anche con l’antisemitismo e l’odio di sé. Peccato.