“Siamo l’animale che racconta storie”: Jonathan Gottschall a confronto con Pesach

Jewish in the City

di Stefania Ilaria Milani

gotschallok«Una sera mi trovavo in macchina e all’improvviso la radio ha trasmesso una famosa canzone country. In genere io odio quel tipo di musica. Eppure allora, sentendo le parole di quella storia cantata, s’è creato un contatto e mi sono commosso. Ho pianto perché, che io lo volessi o meno, la storia appena ascoltata ha esercitato un preciso potere su di me». Questo è l’inizio della storia su come noi raccontiamo storie, ovvero “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani”, che è il primo titolo tradotto in italiano (e prima volta dell’autore in Italia) di Jonathan Gottschall, quarantenne docente di Letteratura Inglese al Washington and Jefferson College di Pittsburgh in Pennsylvania e uno dei più brillanti esponenti del cosiddetto Darwinismo letterario americano, specializzato, appunto, nel rapporto tra letteratura ed evoluzionismo. Inoltre, questo è anche l’inizio della lecture che il celebre professore ha tenuto lunedì 8 settembre nella sala del Grechetto di Palazzo Sormani, in occasione dell’inaugurale conferenza stampa del Festival Internazionale di Cultura Ebraica Jewish and the City 2014, cui tema centrale quest’anno è Pesach, la storia dell’esodo nel deserto e della liberazione del popolo ebraico dai 400 anni di schiavitù subiti in Egitto.

A pensarci bene, l’Homo Sapiens è l’unico animale sulla terra incapace di sopravvivere senza fruire e concepire invenzioni, illusioni, fantasie e favole, cioè senza i racconti. Da bambino gioca a “facciamo finta che”, il gioco simbolico, adora l’arte e i travestimenti, mentre da adulto si ritrova Peter Pan in una Neverland che gli calza naturalmente addosso. Consuma racconti quasi per la metà delle ore di veglia – guardando dopo cena un film sul divano, leggendo il best-seller del mese in metrò, spulciando gli ultimi post degli amici virtuali di Facebook, ascoltando Schubert durante la quotidiana corsetta al parco, oppure giocando ai videogames con i propri figli – e persino quando dorme è spettatore di quelle inconsce novelle autoprodotte che sono i sogni. Per non parlare, poi, dei vagheggi ad occhi aperti: ne facciamo in media 2.000 al giorno della durata di 14 secondi ciascuno, dunque oltre un terzo della nostra vita trascorso a intessere trame. Insomma, non siamo altro che l’animale che racconta storie: più che Sapiens Sapiens, l’Homo, è meglio chiamarlo Fictus.

Ma per quale motivo l’uomo, come specie, è a tal punto disperatamente dipendente dalle storie? E cos’è un essere umano? Cosa ci differenzia dal resto delle creature viventi? Come può essere vantaggioso sollazzarsi con avventure di personaggi che, non esistendo, non ci potranno mai ricambiare, magari, invece, sottraendo tempo a faccende più redditizie o alla vicinanza dei nostri simili, loro sì in grado di fare qualcosa per noi? “Is fiction really good for us?” «Niente di tanto essenziale nella condizione umana è così misconosciuto. Queste domande – spiega Gottschall – sono lasciate a languire nella terra di confine tra scienza e discipline umanistiche. Perciò è nato il mio saggio. Si tratta sia di un tentativo di risolvere davvero il grande mistero su chi siamo e come siamo arrivati ad essere in questo modo, sia di una sfida ai pregiudizi di chi non vuole credere che la narrazione sia naturale per gli esseri umani come lo sono i pollici opponibili, o come camminare su due gambe». E in effetti di miscredenti ce ne sono in giro parecchi. Nei Paesi come il nostro, con una secolare tradizione artistico-letteraria alle spalle, è al limite della blasfemia avallare una spiegazione biologica dell’esperienza estetica, perché significherebbe sposare un determinismo che di fatto nega la magia caratteristica della cultura, ossia la libertà e la creatività dell’individuo. Purtroppo non è un caso che in Italia, dove si tende a tradurre tutto, sino ad ora non sia mai stato tradotto nessuno dei cinque libri scritti da Jonathan Gottschall.

Lecture GottschallEbbene, più di cent’anni fa Lev Tolstoj sosteneva che la narrazione è un’infezione, che le storie ci infettano con le loro speranze e loro paure e che più una storia è bella, più è grave l’infezione. Esattamente dopo 186 anni dalla sua nascita, le neuroscienze sono in grado di chiarire il ruolo che i racconti svolgono sulla mente umana e all’interno delle società. Grazie alla loro estrema versatilità, l’uomo (solo animale capace di emozionarsi di fronte a informazioni slegate dal “qui ed ora”) ha l’occasione di accrescere le proprie competenze sociali, prefigurare le conseguenze di eventi senza correre rischi, vivere più vite allo stesso tempo accumulando esperienze. Sono, in sostanza, simulatori di volo, modelli di realtà semplificati. Ed è giusto l’intensità delle emozioni a facilitare il cervello, ascoltatore attivo, nell’apprendere, rinsaldando le nozioni a più alto contenuto emotivo. Per giunta loro, le storie, soddisfano ancora l’antica funzione di collante socio-culturale, recitano la parte di forza coesiva nella partita giocata contro il caos e la morte. Ragion per cui gli uomini privilegeranno sempre l’irrazionalità dei miti e delle religioni: non possono rassegnarsi all’inspiegabile. Quindi, perché funzioni, un racconto deve: farci cadere in una trance sognante, perdere ogni traccia di noi stessi in una landa del tutto immaginata; necessariamente basarsi (come già aveva assodato il linguista russo V. J. Propp) su conflitti e il loro superamento finale, d’altronde hell is story-friendly; essere un cerchio, e un cerchio è un cerchio, può agire soltanto all’interno di ristretti perimetri di possibilità tramandati da generazioni di narratori; infine, essere morale perché, per catturarne l’attenzione e influenzare il cervello, esso non può essere contagiato da una momentanea sensazione di ripugnanza.

E se addirittura la politica e la psicoterapia si possono definire narrazione, che dire della memoria, dell’universo dei nostri ricordi? «È una forma di narrazione che esploro nel mio libro, e che spesso può essere viziata. Tutti – afferma l’autore – abbiamo piccole storie di vita personali o familiari, tutti possediamo il senso di chi siamo, di come siamo arrivati ​​fin qui e quali sono state le nostre esperienze formative. Quella storia di vita che raccontiamo agli altri e ci raccontiamo su noi stessi si basa sui ricordi. Il problema è che una volta che s’inizia a scavare nella profondità di questi ricordi, si scopre che sono sostanzialmente romanzati. Infatti mi piace pensare alla memoria come a una di quelle pellicole cinematografiche all’inizio delle quali viene proiettato l’avviso “This movie was based on a true story”».  Tuttavia va precisato che le reminiscenze possono anche avere la funzione positiva di sviluppare l’ego inserendo la nostra minima vita nel raggio di una storia più ampia e coerente. Ne è perfetto esempio lo stesso Gottschall, il quale, al termine della lezione in Sormani, riferisce che una volta, in un paese molto molto lontano del Texas, suo padre, il padre di suo padre e il padre del padre di suo padre dovettero lottare con le unghie e con i denti per resistere alla violenza fisico-psicologica di una società in cui avere una faccia che grida al mondo “sono ebreo” poteva procurare non pochi guai. «Per questo motivo mio padre mi diceva sempre di non spifferare ai quattro venti che sono ebreo. Oggi, però, la sua storia e quella di mio nonno e del mio bisnonno mi rendono più forte. Dal momento che furono coraggiosi e lottarono per la loro sopravvivenza, anch’io, che faccio parte di questo tutto, sono un po’ coraggioso».