Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Con questa doppia Parashà si chiude il libro di Bemidbar che è caratterizzato, come abbiamo detto più volte, dalle numerose cadute spirituali del popolo ebraico. Le due Parahsot di questa settimana (spesso lette assieme per motivi “di calendario”) ricorrono sempre nel periodo detto “ben ammezzarim”, “tra le angustie” o “tra le ristrettezze”. Come è noto tale periodo corrisponde alle tre settimane che intercorrono tra il digiuno del 17 di Tamuz e quello del 9 di Av. Questo periodo, nel quale adottiamo numerose manifestazioni di lutto, è dedicato alla commemorazione della distruzione del Santuario.
I nostri Maestri hanno cercato di trovare nelle Parashot generalmente lette in questo periodo degli indizi circa i tragici avvenimenti della distruzione del Tempio.
Almeno due particolari di questa doppia Parashà sono interessanti in tal senso. Il primo è il fatto che nella Parashà di Massè viene ricordata la data della morte di Aron (Rosh Hodesh Av) che era stata omessa nel racconto “originale”. I Maestri commentano lungamente il perché della iniziale omissione, ma noi ci soffermeremo solo su un particolare. La morte di Aron causa la dipartita delle “Nuvole della Gloria” che accompagnavano Israele nel deserto e che erano mantenute dai meriti di Aron. Secondo una nota interpretazione le “succot” (capanne) del deserto erano fatte di “Nubi della Gloria” e non di frasche. La succà (capanna) è anche il simbolo del Santuario, residenza Divina. Con la distruzione del Tempio, distrutto nel mese di Av, viene a mancare quindi Aron, la figura del Sommo sacerdote, ma anche le nubi della gloria, il simbolo della permanenza protettrice di D-o in mezzo ad Israele che si manifesta nel Santuario ma anche nel garantire una dimora sovrannaturale al popolo ebraico.
Il secondo “indizio” ci è fornito nella parashà di Mattot dalla strana richiesta delle Tribù di Reuven e Gad. Queste due Tribù si rendono conto che la terra conquistata da Israele ad est del Giordano è terra adatta alla pastorizia e chiedono pertanto di non andare nella Terra d’Israele e di rimanere lì. All’iniziale ira di Moshè segue il compromesso per il quale viene permesso loro di rimanere a patto che prima aiutino il resto del popolo nella conquista e solo dopo si stanzino in “Transgiordania”. Questa richiesta viene vista di pessimo occhio dai Maestri che motivano il fatto che queste due Tribù saranno le prime ad essere esiliate proprio con questa loro richiesta. Dobbiamo capire perché la richiesta è da considerarsi negativamente e che legame ha questo con la distruzione del Tempio.
La Torà ci informa che queste Tribù avevano “molto gregge”. Il Midrash Haggadol sostiene che non avevano affatto più gregge degli altri, il punto è che loro gli attribuivano più importanza. Questo si può vedere nella formulazione della condizione che esse pongono “costruiremo qui recinti per le nostre greggi e città per i nostri figli”. L’anteporre il lavoro, la ricchezza, all’educazione dei figli ed al loro benessere spirituale è ciò che li terrà fuori dalla Terra d’Israele.
Non solo: secondo un interessante insegnamento talmudico (TJ Yomà 4,2), lo sfrenato desiderio di arricchirsi, e la continua ricerca del successo economico porta alla “sinat hinam”, all’odio gratuito, causa prima della distruzione del Secondo Tempio. Alla base dell’odio gratuito tra ebrei che distrugge il Tempio, c’è la ricerca della ricchezza a discapito dell’educazione ed a discapito del futuro culturale dei figli che dovrebbe venire prima e non dopo gli interessi economici. Nell’ottica ebraica il lavoro e la sicurezza economica non sono solo valori, sono mizvot. Come abbiamo l’obbligo di riposarci il settimo giorno così abbiamo l’obbligo di lavorare per sei giorni. Il lavoro però non è fine a se stesso. Il denaro è uno strumento con il quale servire D-o facendo Zedakà ma anche e soprattutto mantenendo una famiglia nei valori della Torà. Quando il lavoro diventa l’unica occupazione esso soppianta lo studio della Torà e diventa idolatria. Si lavora per aver tempo per dedicarsi alla Torà, non si lavora per diventare ricchi all’infinito.
È per questo tipo di errori di fondo che noi piangiamo ogni anno la distruzione del Tempio. Ci sono però alcune stranezze.
Noi adottiamo nelle tre settimane che precedono il giorno della distruzione del Tempio un comportamento luttuoso. Esattamente nello stesso spirito di quando (has vescialom) viene a mancare un partente. Eppure l’ordine dei tempi è del tutto sballato.
Quando un parente muore (has vescialom) ci sono due fasi principali di lutto: l’onenut (dolenza) e l’avelut (lutto). La prima fase va dal decesso alla sepoltura. La seconda dalla sepoltura a 12 mesi. Rabbi Josè bar Haninà nel Midrash Echà Rabbà spiega che l’onenut è caratterizzata dal lutto interiore poiché il morto non è ancora stato sepolto, il dolore è forte e non c’è bisogno di atteggiamenti esteriori. Al contrario l’avelut è caratterizzata da molteplici norme di comportamento esteriore perché non ci si dimentichi del morto. “Disse Rav: il morto non viene dimenticato dal cuore altro che dopo dodici mesì” (TB Berachot 58b) e così si fanno dodici mesi di lutto. L’insegnamento di Rav implica anche che il morto non vada dimenticato se non dopo dodici mesi. È evidente che ci si riferisce ad una dimenticanza relativa, nessuno dimentica un proprio caro, ma dopo dodici mesi si deve aprire una nuova pagina.
Se confrontiamo questo con il nostro comportamento circa il lutto per la distruzione del Tempio ci rendiamo conto che noi concentriamo l’avelut (lutto) nel periodo che precede la distruzione con culmine nel giorno in cui inizia ad essere distrutto il Tempio (9 di Av), facciamo poi un giorno di onenut (dolenza) il 10 di Av giorno in cui il Tempio è stato propriamente distrutto nel quale siamo in lutto ma non lo manifestiamo esternamente. Dopodiché comincia la consolazione.
Facciamo cioè esattamente il contrario: invece di fare prima onenut e poi avelut facciamo prima avelut e poi onenut. Dopo la distruzione, quando dovremmo cominciare il lutto ci consoliamo.
Alla base di questa stranezza c’è la profonda differenza che c’è tra la morte di un uomo e la distruzione del Tempio. Per un uomo si fanno dodici mesi di lutto perché siamo impotenti: dopo la morte dell’individuo non possiamo fare niente per riportarlo in vita. Il Tempio invece può essere ricostruito ed il nostro lutto si riferisce più che altro al nostro comportamento che ha causato la distruzione. Noi facciamo lutto come segno di pentimento.
Yaakov nostro padre si rifiutava di farsi consolare dopo la “morte” di Josef. Egli sapeva che in realtà il figli era vivo e il suo lutto per il comportamento dei figli era perenne e non si limitava a dodici mesi. Il Talmud (TB Pesachim 54b) dà ragione a Yaakov “per un vivo che c’è chi sostiene morto non si accetta di essere consolati”.
Il massimo delle manifestazioni di lutto avviene la sera del 9 di Av, in quel momento il Tempio era ancora in piedi. Dopo la distruzione avvenuta il dieci di Av noi ci consoliamo proprio nel momento in cui il lutto dovrebbe iniziare.
Noi abbiamo protratto il nostro lutto per il Tempio ben oltre i dodici mesi, sono quasi duemila anni. Questo perché il Tempio è ancora vivo.
“Chiunque fa lutto per Gerusalemme, merita di vederla nella sua gioia” (TB Taanit 30b) Non meriterà, merita al presente. È il fare lutto ogni anno prima della distruzione e non dopo che testimonia la fiducia nella prossima consolazione. In questo senso mentre facciamo lutto prima del tempo abbiamo la certezza della ricostruzione e per questo già vediamo la gioia di Gerusalemme.
La ricostruzione del Tempio dipende solo da noi e dal nostro comportamento, per questo ci consoliamo dopo il 10 di Av. Il Tempio è distrutto ma può essere ricostruito.
Nel caso di un morto non c’è niente da fare dopo il decesso. Nel caso del Santuario proprio dopo la distruzione è possibile aprire una nuova pagina che porterà alla costruzione del Terzo Santuario, che durerà in eterno.
Il giorno in cui è stato distrutto il Tempio è nato il Messia, colui che ricostruirà il Tempio, presto ed ai nostri giorni.
Di Jonathan Pacifici
(Foto: Reuben and Gad Ask for Land, di Arthur Boyd Houghton. Wikimedia)