Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
In questa parashà incontriamo Balak Ben Tzippor, re di Moav, che teme l’avanzata dei figli di Israele verso le sue terre, ma sa che è aiutato da una forza magica emanata dalla volontà di Dio contro la quale egli non può lottare e cerca di opporre magia a magia.
Chiama quindi Bilam ben Beor, che il midrash definisce come Moshé “il maggior profeta” e gli chiede di maledire Israele e di rompere le difese magiche che Dio gli ha fornito, per poter così vincere la guerra che si avvicina. Bilam, che è un vero profeta, anche se legato al mondo dell’idolatria, sa che la sua magia non avrà nessuna forza se non riceve l’assenso di Dio. Lo consulta ed Egli pone sulla sua bocca le parole che dovrà pronunciare.
Per molte volte Bilam benedice il popolo di Israele, di fronte alla perplessità e all’impotenza di Balak. Bilam osserva l’accampamento di Israele da una montagna ed ha una visione spaziale e temporale del popolo che dovrebbe maledire che lo costringe a dargli una benedizione: “Come sono belle le tue tende (case) Yaakov e le tue dimore Israel!” esclama. Viste dalla terra di Moav, le case, le famiglie di Israele, l’unità e la armonia che vi regnano, suggeriscono a Bilam una tale espressione di ammirazione.
Nota: con questa esclamazione detta da un non ebreo cominciano le preghiere mattutine degli ebrei di oggi.
Bilam osserva la solidarietà e il senso di reciproca responsabilità che regnano nelle famiglie di Israele: caratteristiche che, da sempre – e ancor oggi – tutti i popoli hanno riconosciuto agli ebrei ed hanno costituito oggetto di speciale ammirazione.
In seguito, in un’altra delle sue benedizioni Bilam si riferisce ad Israele dicendo: “Un popolo che vivrà nella sua solitudine e che non sarà considerato dalle altre nazioni.” Questa solitudine alla quale si riferisce Bilam è stata una costante della storia del popolo ebraico e su di essa pendono numerosi interrogativi. Questa solitudine è una benedizione o una maledizione? È causata dallo stesso popolo di Israele o dal resto delle nazioni? Si tratta di una opzione ideologica o di una realtà che ha cause storiche e sociali? Probabilmente la risposta ebraica a queste domande si trova in una sintesi tra le due opzioni.
Il prof. Shmuel Etinguer spiega che la solitudine ebraica e la stessa esistenza del popolo di Israele sono il frutto di un sistema di forze contrapposte che, viste in prospettiva, tendono costantemente all’equilibrio. Da un lato sono forze centrifughe, attraverso le quali il popolo di Israele prova a rompere la sua solitudine e ad integrarsi nelle società che lo circondano; da un altro lato sono forze centripete attraverso le quali la società esterna e il peso della propria tradizione spingono gli ebrei a ripiegare e a dover contare su se stessi.
La solitudine ebraica, dunque, emerge da una identità duale che condiziona il rapporto dell’ebreo con la società. In questa nostra epoca in cui l’ebreo sembra integrarsi progressivamente nelle società in cui vive, si può porre rimedio a tale solitudine, ponendo in atto quella “solidarietà ebraica”, che proietta il rapporto individuo-società in una dimensione individuale di elevato valore e peculiarità.
Di Rav Eliahu Birnbaum