Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
In italiano, il libro che iniziamo questa settimana si chiama Numeri, e per un motivo ovvio. Inizia con un censimento e c’è anche un secondo conteggio verso la fine del libro. Da questo punto di vista, il tema centrale è la demografia. Gli israeliti, all’inizio del libro, erano ancora al Sinai ma sull’orlo della Terra Promessa alla sua fine, sono ora una nazione consistente, con 600.000 uomini in età utile per intraprendere il servizio militare.
Nella tradizione ebraica, tuttavia, questo libro è diventato noto come Bamidbar, “nel deserto”, suggerendo un tema molto diverso. La ragione superficiale del nome è che questa è la prima parola distintiva del versetto iniziale del libro. Ma il lavoro di due antropologi, Arnold van Gennep (antropologo francese 1873-1957) e Victor Turner (antropologo scozzese 1920-1983) suggerisce una possibilità più profonda di interpretazione. Il fatto che l’esperienza formativa di Israele sia avvenuta nel deserto si rivela altamente significativa. È lì, infatti, che il popolo sperimenta una delle idee più rivoluzionarie della Torà, ovvero che la società ideale è quella in cui tutti hanno pari dignità sotto la sovranità di Dio.
Arnold Van Gennep, nel suo “I riti di passaggio”, sostenne che le società sviluppano rituali per segnare il passaggio da uno stato all’altro – dall’infanzia all’età adulta, per esempio, o dall’essere single all’essere sposati – e comportano tre fasi. La prima è la separazione, una rottura simbolica con il passato. La terza è l’incorporazione, il rientro nella società con una nuova identità. Tra le due fasi c’è quella cruciale della transizione quando, dopo aver detto addio a chi si era ma non ancora ciao a chi si sta per diventare, si viene rifusi, rinati, rimodellati.
Van Gennep ha usato il termine liminale, dal latino “soglia”, per descrivere questo secondo stato, quando ci si trova in una sorta di terra di nessuno tra il vecchio e il nuovo. Questo è chiaramente il significato del deserto per Israele: uno spazio liminare tra l’Egitto e la Terra Promessa. Lì Israele rinasce, non più un gruppo di schiavi in fuga ma “un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Il deserto – una terra di nessuno senza popolazioni stanziali, senza città, senza ordinamenti civili – è il luogo in cui i discendenti di Giacobbe, soli con Dio, si liberano di un’identità e ne assumono un’altra.
Questa analisi ci aiuta a comprendere alcuni dettagli del libro dell’Esodo. L‘imbrattamento degli stipiti delle porte con il sangue (Esodo 12,7) fa parte della prima fase, la separazione, durante la quale la porta attraverso cui si passa quando ci si lascia alle spalle la vecchia vita ha un significato simbolico speciale.
Allo stesso modo la divisione del Mar Rosso. La divisione di una cosa in due, attraverso la quale passa qualcosa o qualcuno, è una rappresentazione simbolica della transizione, come lo è stata per Abramo nel passaggio in cui Dio gli parla del futuro esilio e della schiavitù dei suoi figli (Genesi 15,10-21). Abramo divide gli animali, Dio divide il mare, ma è il movimento tra le due metà a segnalare il cambiamento di fase. Notate anche che Giacobbe ha i suoi due incontri fondamentali con Dio nello spazio liminare, durante il viaggio dalla sua casa verso la dimora di Labano (Genesi 28:10-22 e Genesi 32:22-32).
Victor Turner ha aggiunto un ulteriore elemento a questa analisi. Ha tracciato una distinzione tra la società e ciò che ha chiamato communitas. La società è sempre caratterizzata da strutture e gerarchie. Alcuni hanno potere, altri no. Ci sono classi, caste, ranghi, ordini, gradazioni di status e di onore. Per Turner, ciò che rende vivida e trasformativa l’esperienza dello spazio liminare è che nel deserto non ci sono gerarchie. Al contrario, c’è “un intenso cameratismo ed egualitarismo. Le distinzioni secolari di rango e di status scompaiono o si omogeneizzano”. Le persone gettate insieme nella terra di nessuno del deserto sperimentano il “legame umano essenziale e generico”. Questo è ciò che egli intende per communitas, uno stato raro e speciale in cui, per un breve ma memorabile periodo, tutti sono uguali.
Ora cominciamo a capire il significato di midbar, “deserto”, nella vita spirituale di Israele. Era il luogo in cui sperimentavano con un’intensità che non avevano mai provato prima e che non avrebbero mai più facilmente sperimentato, la vicinanza non mediata di Dio che li legava a Lui gli uni agli altri.
È questo che intende il profeta Osea quando parla, a nome di Dio, di un giorno in cui Israele sperimenterà, per così dire, una seconda luna di miele: “Perciò ora la alletterò; la condurrò nel deserto e le parlerò con tenerezza… Lì risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come nel giorno in cui uscì dall’Egitto. In quel giorno”, dichiara il Signore, “mi chiamerai “mio sposo”; non mi chiamerai più “mio maestro”. (Osea 2:14-16)
Ora comprendiamo anche il significato del racconto all’inizio di Bamidbar, in cui le dodici tribù erano accampate, in file di tre ai quattro lati del Tabernacolo, ognuna equidistante dal sacro. Ogni tribù era diversa, ma (ad eccezione dei Leviti) tutte erano uguali. Mangiavano lo stesso cibo, la manna dal cielo. Bevevano la stessa bevanda, l’acqua della roccia o del pozzo. Nessuno aveva ancora terre proprie, perché il deserto non ha proprietari. Non c’era alcun conflitto economico o territoriale tra loro.
L’intera descrizione dell’accampamento all’inizio di Bamidbar, con la sua enfasi sull’uguaglianza, si adatta perfettamente alla descrizione di Turner della communitas, lo stato ideale che le persone sperimentano solo nello spazio liminale in cui si sono lasciate alle spalle il passato (l’Egitto) ma non hanno ancora raggiunto la loro destinazione futura, la terra di Israele. Non hanno ancora iniziato a costruire una società con tutte le disuguaglianze che la società comporta. Per il momento sono insieme, le loro tende formano un quadrato perfetto con il Santuario al centro.
La pregnanza del libro di Bamidbar sta nel fatto che questa communitas è durata così poco. L’atmosfera serena del suo inizio sarà presto infranta da un litigio dopo l’altro, da una ribellione dopo l’altra, da una serie di sconvolgimenti che costeranno a un’intera generazione la possibilità di entrare nella terra.
Eppure Bamidbar si apre, come il libro di Bereshit, con una scena di ordine benedetto, lì naturale, qui sociale, lì diviso in sei giorni, qui in dodici (2×6) tribù, ogni persona in Bamidbar come ogni specie in Bereshit, al suo giusto posto, “ognuno con il suo stendardo, sotto gli stendardi della sua casa ancestrale” (Numeri 2:1).
Il deserto non era quindi solo un luogo, ma uno stato d’essere, un momento di solidarietà, a metà strada tra la schiavitù in Egitto e le disuguaglianze sociali che sarebbero poi emerse in Israele, un ideale da non dimenticare mai, anche se mai più pienamente catturato nello spazio e nel tempo reali.
L’ebraismo non ha mai dimenticato la sua visione dell’armonia naturale e sociale, enunciata rispettivamente all’inizio dei libri della Genesi e dei Numeri, come a dire che ciò che è stato un tempo può essere di nuovo, se solo si ascolta la parola di Dio.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl