Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
(Esodo 10,1 – 13,16) Vengono descritte le ultime tre piaghe che colpirono gli egiziani, si parla dell’uscita del popolo di Israele dalla terra di schiavitù, dell’istituzione della festa di Pesach con tutti i precetti ad essa collegati e, in particolare, del modo in cui i nostri antenati avrebbero dovuto celebrare il primo Pesach, il “Pesach Mitzraim”, come è comunemente denominato.
Soffermiamoci sulle parole che troviamo proprio all’inizio della Parashà, quando Mosè ed Aronne si recarono dal Faraone e gli dissero: “Così parla il Signore… lascia andare il Mio popolo perché Mi presti culto” (10,3).
Questa frase così incisiva, che già più volte Mosè aveva ripetuto al Faraone, sarebbe divenuta un motto e un monito: il simbolo del diritto alla libertà per ogni uomo e per ogni popolo.
Rileggiamo attentamente questa frase: “Lascia andare il Mio popolo perché Mi presti culto”. Se grande importanza è sempre stata data alla prima parte della frase, “Lascia andare il Mio popolo”, forse non è stata considerata al suo giusto valore la seconda, né si è meditato in modo adeguato sul suo profondo, reale significato.
Queste parole non sono soltanto un ordine divino al re d’Egitto. In realtà esse costituivano un messaggio, sì, per i figli di Israele, ma anche un messaggio che può, che deve essere esteso all’umanità intera, in tutti i luoghi e in tutti i tempi.
Le parole divine trasmesse da Mosè al Faraone, infatti, non erano soltanto una richiesta di rilasciare un popolo sofferente: esse erano anche un monito al popolo che soffriva in schiavitù perché fosse consapevole del modo in cui avrebbe dovuto usare della riconquistata libertà.
I figli di Israele sottoposti agli egiziani, non soltanto erano calpestati nel corpo, non soltanto avevano perso il diritto di disporre della propria vita: essi erano soprattutto calpestati nello spirito, nel loro diritto a una scelta morale e ideologica che veniva loro invece chiaramente indicata nella frase “perché Mi presti culto”.
Al popolo di schiavi giunse così la straordinaria notizia: qualcuno ben più potente del Faraone stava per venire loro in aiuto e li avrebbe liberati dal pesante giogo che li piegava; essi sarebbero stati padroni di se stessi e avrebbero potuto vivere la loro vita secondo i propri desideri, ma attenendosi all’ordine divino “perché Mi prestino culto!”.
I figli di Israele compresero che finalmente avrebbe avuto inizio la loro esistenza di popolo libero. La vita reale in effetti comincia solo con l’emancipazione, con la libertà di scegliere in che modo usare della propria libertà.
L’esistenza dello schiavo, dell’uomo sottomesso alla servitù e all’oppressione, non ha né giorni né stagioni, né sabati né feste: per lui il tempo non scorre e il sole non sorge mai. La sua esistenza è una notte eterna, una solitudine, un caos ove la sofferenza e la morte hanno spento la luce e spezzato la volontà.
E in effetti solo al momento della liberazione dall’Egitto i nostri antenati hanno cominciato a contare il tempo. La loro nascita come popolo, la storia della loro costituzione sociale e politica, come afferma la parola divina proprio in questa Parashà, “Questo mese (Nissan) sia per voi il primo dei mesi dell’anno” (12,2), avviene nel mese di Nissan, il mese in cui ottennero la libertà e il loro inizio alla vita di popolo libero. Ecco perché il mese di Nissan in cui cade la ricorrenza di Pesach è considerato un inizio dell’anno; perché la notte della loro uscita dall’Egitto avrebbe costituito la loro effettiva nascita a una vita e a una missione che continua tuttora.
I figli di Israele avevano ottenuto, con l’aiuto dell’Eterno, la libertà; ma vi sono due tipi di libertà: quella del corpo, libertà materiale, e quella spirituale. La prima è paragonabile alla libertà della bestia nella foresta, del selvaggio nel deserto; non ha né forza né durata, qualsiasi evento può spezzarla o annientarla. La vera libertà è quella morale: l’uomo e il popolo che l’abbia veramente conquistata è libero in eterno e nessuna potenza brutale, nessuna catena della tirannide potranno farne di nuovo uno schiavo.
Meditiamo ancora sul messaggio divino: “Lascia andare il Mio popolo perché Mi presti culto”.
Ci domandiamo: quanti dei figli di Israele al pensiero della prossima libertà si erano forse configurati una vita di libertà assoluta, una rivalsa per tutti gli anni di schiavitù subita? Chi è stato sottoposto per lungo tempo a un rigoroso controllo che nessuno spazio lasciava alla sua libertà di azione e di decisione, nel momento in cui raggiunge la libertà spesso, troppo spesso, come dimostrano tragicamente anche le vicende di questi ultimi decenni, è portato ad abusare di questa libertà.
Ma il popolo di Israele, non più schiavo del Faraone, aveva una strada chiaramente tracciata: sarebbe divenuto servo di Dio.
In apparenza sarebbe potuto sembrare solo un cambiamento di padrone; ma la differenza era assai più profonda e significativa! Se l’antica schiavitù distruggeva le caratteristiche umane, paralizzava lo spirito, annientava la volontà, la nuova “servitù”, al contrario, avrebbe rinforzato lo spirito, elevato l’animo, nobilitata la vita.
I figli di Israele sapevano che, redenti dall’Egitto, li attendeva un duro compito. Certo, le antiche restrizioni sarebbero state tolte; ma sarebbero state sostituite da altre nuove restrizioni. Dio era ed è un padrone esigente: al Suo popolo, ai Suoi figli, avrebbe richiesto un arduo compito, e tutta la loro vita sarebbe stata controllata dalla Sua volontà.
D’altronde la vera libertà dell’uomo consiste nella scelta della legge a cui sottomettersi. Chi cede alla tentazione di proclamare la propria assoluta libertà completamente svincolata dall’umano viver civile finisce per soccombere alle proprie passioni e per divenire loro schiavo. Una schiavitù assai più dura e umiliante di quella richiesta dal volere divino. Questa situazione è assai ben descritta dalla massima: “Tzadikim libbam birshutam ursha’im birshut libbam” e cioè: “I giusti hanno il cuore sotto il proprio dominio, i malvagi sono sotto il dominio del proprio cuore” (Bereshith Rabbà 34).
Il messaggio inviato nel lontano passato al Faraone è quindi sempre valido. A ognuno di noi vengono offerte due alternative: essere servi del Signore, o esserlo del Faraone.
Il principio religioso e morale dell’ebraismo può essere riassunto nelle parole: “Zoth ‘assù, vihyù”, “Attenetevi nel vostro comportamento alla volontà del Signore, e vivrete!” (Gen. 42,18).
Gli straordinari, prodigiosi episodi che accompagnano l’uscita degli ebrei dall’Egitto ci spiegano il risalto e l’importanza che vengono dati alla festa di Pesach.
Subito dopo l’uscita, dice infatti Mosè al popolo: “Ricordatevi di questo giorno in cui siete usciti dall’Egitto, dalla casa di schiavitù, perché l’Eterno vi ha tratti fuori da questo luogo con mano potente… Si mangi pane senza lievito per sette giorni… e spiegherai la cosa al tuo figliolo dicendo: `Si fa così a motivo di quello che l’Eterno fece per me quando uscii dall’Egitto…’” (13,3-8).
Il Seder di Pesach, la lettura della Haggadà, il rituale che accompagna l’“ordine” in cui si svolge la cerimonia, sono il compendio dell’insegnamento che il ritorno alla libertà e l’accettazione della Legge ci impartiscono.
Di Elia Kopciowsky
(Foto: John Martin ‘La settima piaga in Egitto’)